2009  GUATEMALA

La tierra de los Mayas

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New York - Ground Zero

 

Dopo i rituali festeggiamenti di fine anno, e coricatomi alle 2.40 del mattino, alle 5 sono già a Linate dove salgo sulla navetta per la Malpensa. M’aspetta un viaggio massacrante e pieno di incognite. Atterro dopo otto ore al Kennedy di New York. Ho un po’ di ore a disposizione e non voglio proprio perdermi la possibilità di rivedere la Grande Mela.  Un pullman della compagnia Nyas mi porta fino a Grand Terminal in Park avenue. Che freddo! Mi porto sulla quinta strada e ridiscendo in un mare di folla, fino all’Empire State building. Vorrei salirlo, ma a causa della fila desisto. Con un taxi, lungo la Broadway, raggiungo il sito di Ground Zero, il luogo dove l’11 settembre 2001 sono state abbattute le Twin Towers. Ora c’è un grande recinto, con delle gru all’interno. Risalgo fino al Madison Square Garden  entrando per un attimo ai grandi magazzini Macy’s. Risalgo la settima e, man mano che mi avvicino a Times square, la folla aumenta sempre più. Sfavillio di luci, insegne al neon gigantesche, pubblicità luminose sui palazzi, teatri e locali sfavillanti. Pare un tripudio di luci d’ogni tipo che stordisce. E’ certamente un luogo unico al mondo. Sono come incantato dalla profusione di luci, ma fa anche un freddo cane. Saranno 10 i gradi sotto zero. Proseguo fino alla 50ma raggiungendo il magnifico complesso del Rockfeller Center, con i suoi grattacieli, il campo di pattinaggio, tutta la gente che si diverte, la statua di Prometeo e l’immenso albero di Natale che ogni anno portano qui dal Canada. E’ tutto così affascinante! Ecco il Radio City Music All e poi la bella cattedrale di St.Patrick. Risalgo la Quinta fino ad ammirare il famoso Hotel Plaza e poi ridiscendo sull’altro lato fino al Trump Tower. Mi dirigo nuovamente a Park avenue, grande viale ricchissimo di palazzi esclusivi e con poco traffico. I negozi non sono qui. Entro nel celeberrimo Walforf Astoria visitandolo per quanto possibile e restando abbagliato dalla bellezza dei suoi negozi interni. Decido di ritornare al Grand Terminal e quindi al Kennedy. Ora dovrò attendere la notte, prima di partire alle 5.45 per Miami. Non ci sarà verso di riposare durante questo lasso di tempo e sento già gli occhi che mi si chiudono. Da Miami, altre tre ore di attesa fino all’ultimo balzo fino a Guatemala city. Bagaglio, ed ecco fuori dall’aerostazione il rappresentante della Tamburini rent a car ad aspettarmi. Ritirata l’auto cerco di tornare in me il più in fretta possibile e di abituarmi al traffico della capitale. In dieci minuti sono già calato nella realtà locale. Il mio programma è di raggiungere Antigua, a circa trenta chilometri ed avere il tempo di visitarla prima che cali il sole. Eccola, con il suo vulcano Agua che la domina. Non sarà semplice trovare l’albergo, ma alla fine sosto alla Posada Landivar, accogliente. Parcheggiato nelle vicinanze e sistemati i bagagli in camera, ne esco subito dopo dirigendomi al vicino Parque Central, un ampia e graziosa piazza che è il ritrovo abituale dei locali. Ci sono dei giardini e, lì vicino, tutto quello che c’è di interessante da vedere: la bella Catedral de Santiago, il Palacio de los Capitanes costruito nel 1558 e centro amministrativo fino al 1773 di tutta l’America centrale. Passeggio fino all’Arco de Santa Catalina, costruito nel 1694 per consentire alle suore di attraversare la strada senza essere viste. Ancora quattro passi, per poi tornare alla posada e mettere a fuoco le idee per domani. Cenerò al Fonda della Calle Real con lomito emperador e contorno di patate novelle. Torno e cerco di dormire in fretta, dato che l’indomani potrebbe essere una tappa impegnativa e ricca di incognite. Parto alle sei del mattino. C’è già luce e ne sono contento. Speravo che mi si consentisse di partire presto, ma sarebbe stato imprudente farlo ancora immersi nell’oscurità. Dopo il bivio di Los Encuentros, scendo fino a Solola e quindi al villaggio di Panajachel, sul famoso lago di Atitlan. La giornata è soleggiata, ideale per godere delle atmosfere di questo lago, considerato tra i più belli al mondo. Panajachel è una località turistica e perciò zeppa di locali d’ogni tipo che tolgono fascino al contesto generale. All’entrata del paese sono stato costretto a pagare un pedaggio. Tassa di ingresso mi hanno detto. Dopo una breve passeggiata in riva al lago, ammirando la corona di vulcani sulla riva opposta, decido di ripartire. Il mio scopo è quello di circumnavigare il lago attraverso la strada che sembra consentirlo. Per farlo dovrò chiedere costantemente informazioni. La carretera che lo circonda, in alcuni tratti potrebbe non essere sicura o impedirmi di transitare con la mia piccola Kia Picanto, perciò devo stare all’erta. Costeggio la collina fino al villaggio di St. Andres e proseguo sempre ad una certa altezza, potendo godere di scorci magnifici sul lago. Dopo un po’ scendo a San Lucas Toliman, raggiungendo il molo e assistendo alla performance di un predicatore evangelico che grida alla folla. Riparto sostando al villaggio seguente: Santiago de Atitlan. Visito i dintorni. Ecco i primi costumi maya. Sono dell’etnia Tz’utujil e indossano delle tuniche(huipiles) ricamate con uccelli e fiori dai colori sgargianti. Risalgo la stradina principale, zeppa di bancarelle e poi ritorno al molo pranzando in un localino e gustando una mojarra (pesce persico) a la plancia. Nel ripartire, domando ad un poliziotto le condizioni della strada per San Pedro. Lui mi sconsiglia di raggiungerlo e di tornare indietro. Insisto e così chiama al telefono i suoi colleghi che pattugliano la zona. Dopo un po’ mi informa che mi aspetteranno fuori dal paese per scontarmi fino a destinazione. Riesco a caricare con me il poliziotto e a farmi indicare la strada corretta, mentre ne approfitto per domandargli della situazione attuale. Ora sembra che il governo abbia intrapreso una direzione più democratica e sia più orientato a difendere i diritti dei deboli e della popolazioni maya. Scortati dalla jeep della polizia percorro una pista in condizioni pessime. E’per questo che i malintenzionati della zona, approfittando della velocità ridottissima(a passo d’uomo) assaltano all’arma bianca gli sprovveduti turisti. D’altronde, mi confiderà il poliziotto, i soldi non ci sono per pagare ulteriori forze dell’ordine. Pochi controlli, più reati. Raggiungo San Pedro la Laguna e il suo molo. Viuzze caratteristiche dove si incontrano numerosi hippy. Nel complesso un pueblo sonnolento col contorno del lago e dei vulcani. Il mio itinerario prevede anche la visita di San Marcos, ma non mi accorgo del punto in cui dovrei svoltare. E’ ormai troppo tardi e decido di proseguire. Devo raggiungere Chichicastenango. Domani è domenica, giorno di mercato ed è meglio che trovi un alloggio il più in fretta possibile. Salgo fino ad incrociare la Interamericana e quindi, fra interruzioni stradali, eccomi a Los Encuentros. Da qui sarà un susseguirsi di tumules (dossi) fino a destinazione. Ecco Quiche, come è confidenzialmente chiamata dai locali. Circondata da valli e montagne, detiene il mercato più famoso del Guatemala. E non voglio perdermene un aspetto. Overnight alla posada El Arco, poco distante dal centro. Magica doccia e quindi scendo alla scoperta della cittadina. Quiche ha due distinte comunità religiose e politiche: una la Chiesa cattolica e la Repubblica del Guatemala che nomina i preti, le autorità religiose e i funzionari comunali. Dall’altro, la popolazione indigena che elegge le proprie autorità religiose e politiche per occuparsi delle faccende locali, con un consiglio e sindaco autonomi. Passeggio fino alla piazza centrale dove è la chiesa principale di San Tomas. Bancarelle vendono cibo e souvenir. Tutto intorno, i maya kaqchiquel, con i loro caratteristici costumi. Domani convergeranno qui tutti i maya dei dintorni. Molti arrivano in città la sera prima, scaricano le loro merci sotto i portici della plaza, cucinano la cena e vi trascorrano lì la notte in attesa dell’indomani Visito la chiesa e poi giro per assistere allo spettacolo della gente. Ceno al Los Cofrades, con un ottimo churrasco. L’indomani mi sveglierò alle 5.30 e alle 6 sarò già in strada. Nelle vie c’è già un lieve fermento. Molti stanno predisponendo i loro banchi, altri si stanno svegliando ora. Una pasticceria sta aprendo già i battenti. Convinco il commesso a servirmi il caffellatte e due fette di torta, mentre assisto al via vai e ai preparativi dell’evento. Ci sono persino bimbi in tenera età. I genitori non se la sono sentita di lasciarli al loro villaggio. E’ una umanità che si muove, che si industria, mentre il sole sta ancora sulla linea dell’orizzonte. Con una fascia appoggiata alla fronte sollevano carichi di venti, trenta chili, in silenzio, determinati. Vado in piazza e sotto i portici del Municipio ci sono bambini che ancora dormono all’aperto. Sui muri sono affrescati episodi tratti dal Popul Vuh, la Bibbia maya, che fu scritta dopo la conquista spagnola. In giro ancora qualcuno ubriaco dalla sera precedente e sui gradini della chiesa coloratissime donne che sistemano cesti pieni di fiori. Assisto all’arrivo di alcuni chuchkajaues, capi preghiera indigeni che agitano gli incensieri recitando parole magiche in onore dell’antico calendario maya e dei loro antenati. Qui esiste una sorta di sincretismo religioso che fonda la dottrina dei conquistadores con le credenze maya. Scendo e faccio un giro delle bancarelle. Tavoli dove si preparano le classiche tortillas di farina grezza e bianca. Ovunque si levano i fumi dei fuochi dove si prepara la prima colazione. Alle otto faccio ritorno alla chiesa. Si sta per celebrare la messa e sono appena giunti dei sacerdoti maya con tanto di bastone stellato, mantello nero e copricapo colorato. Si inginocchiano all’entrata, recitano due salmi e poi, raggiunti da altri, vanno in processione lungo le vie di Quiche. Questo è un posto vero e la presenza dei turisti non ha ancora snaturato la sua essenza. Vago senza meta precisa, immerso in una umanità che mi inebria e emoziona. Si vende carne, pesce secco, frutta, verdura, polli imprigionati in gabbie, capre e molto altro. Dopo un occhiata alla chiesa dell’altro lato della piazza, decido di partire verso le 9.45 per Los Encuentros. Proseguo sulla Interamericana, un ampia strada scorrevole, ma polverosa a causa di molti lavori che bloccano spesso la marcia anche per dieci minuti. E’ una profonda ferita fra ampie vallate. A circa 42 chilometri da Los Encuentros la strada raggiunge il passo a 3.670 metri. E’ un’altezza vertiginosa, ma non si avverte data l’ampia carreggiata che consente persino alte velocità. Pranzato nei pressi di Quatro Caminos, un importante incrocio stradale divenuto zeppo di negozi e attività commerciali, decido di recarmi a San Francisco el Alto, sulla cima di una collina affiancata a Quetzaltenango, ma il luogo mi da una sensazione di insicurezza e resto un po’ deluso mentre ritorno sui miei passi, sempre stando attento alle numerosissime buche che costellano la strada. Anche il vicino Momotenango non mi impressiona. Ho una vaga intenzione di proseguire dritto per Huehuetenango verso nord saltando Quetzaltenango, ma alla fine opto per la soluzione più tranquilla e punto verso la città. Sistemo le mie cose al Los Olivos per poi uscire e dirigermi verso la piazza principale e i suoi giardini. Hela, come è chiamata dai suoi abitanti non è particolarmente attraente e persino la cattedrale nonostante la sua facciata barocca, appare decrepita nei suoi muri perimetrali. Tiro sera,  quando cenerò al Balcon de Enrique, su una terrazza che da direttamente sulla piazza illuminata da bei lampioni. Ancora sveglia all’alba, per partire alle 6.10. C’è nebbia al mio arrivo a Zunil dove ci sarebbe dovuto essere un buon mercato, ma la mia guida ha sbagliato il giorno, così mi ritrovo a tornare indietro. Proseguo dritto fino a Huehuetenango. Domando informazioni sulla condizione della strada per Todos Santos e ricevo risposta tutte favorevoli. Salgo fino a Chantla, entrando subito dopo nella zona del Cuchumatanes. I tornanti sono ripidi. Di frequente noto ghiaia, caduta da piccole frane che invadono la sede stradale. Non me ne curo, ma poco dopo una curva, vedo due auto della polizia ferme nella vicinanze di una jeep nera piegata verso il centro della strada. Un masso enorme gli è caduto sulla fiancata sinistra. Qui le frane sono all’ordine del giorno e dovrò richiamare la mia buona stella. Salgo fino ad una sorta di altopiano dove la mia vista spazia lontano, lontano. Sono felice di essere qui, distante dalle zone turistiche, a respirare aria di libertà. Fiori rossi e cactus, dopodichè la strada ridiscende fino a Paxix. Ora diventa pista sterrata che si infiltra all’interno. Saliscendi polverosi sforzeranno la mia Kia, ma infine ecco Todos Santos Cuchumatan a 2450 di altezza. E’ un autentico villaggio guatemalteco. Qui gli abitanti indossano abiti tradizionali e, cosa insolita, sono i vestiti maschili ad essere quelli più vistosi. I loro pantaloni sono a strisce rosse e bianche e calzano piccoli cappelli con nastri blu. Vi regna un atmosfera tranquilla, pacifica. Una piazzetta, una chiesetta. Di fronte, su una sorta di terrazza, dei locali osservano il via vai della via. Questa località è stata duramente colpita durante la guerra civile e la gente è ancora oggi molto povera. Riparto ridiscendendo nuovamente a Chantla. Il fuoristrada colpito dal masso è stato rimosso. Dopopranzo giungo a Huehue e proseguo poi verso est lungo una strada che attraversa molti villaggi interessanti come Aguacatan e Sacapulas. Giungo alla deviazione per Nebaj, mia meta finale. La strada sale fino ai 1.900 metri di questa cittadina, in posizione isolata nel remoto avallamento dei monti Cuchumatanes. Sistemo i bagagli al Villa Nebaj. Ne esco in fretta per recarmi al mercato locale che sta per chiudere i battenti. Le donne maya nebaj sono famose per le fasce con pompon viola, verdi e gialle con cui legano i capelli e per gli huipiles e i rebozos (scialli), decorati con motivi d’uccelli e altri animali. Nebaj fu conquistata dagli spagnoli con grande difficoltà per via della sua posizione, ma quando ci riuscirono, sterminarono la popolazione. Passeggio per le vie del centro entrando anche nella chiesa della piazza principale. Vengo quindi attratto da un vocio proveniente da una specie di palestra dove sul palco si stanno alternando dei predicatori evangelici. Con il loro trasporto coinvolgono i fedeli che sembrano ascoltare come estasiati. Fra di loro moltissimi maya con costumi tradizionali. Torno in albergo dove m’accorgo di un articolo sulla prima pagina di un quotidiano locale. Accerto la notizia che mi getta nella preoccupazione. Sembra che un immenso derrumbe (frana) abbia praticamente cancellato un tratto della strada che avrei dovuto percorrere domattina… ed era l’unica possibile per poi salire verso la zone delle foreste del Peten. Il receptionist chiama un suo amico di Coban per conoscere la situazione, ma pare che non ci siano alternative fattibile per chi sia in possesso di un auto normale. Non mi resta che tornare alla capitale e risalire a nord da li. Sono centinaia di chilometri in più, ma non posso fare altro e anche alla polizia mi confermano che dovrò ritornare alla lontana Guatemala city. Nemmeno potrò partire troppo presto, dato che non è sicuro guidare con l’oscurità. Tuttavia non ho alternative. Se vorrò raggiungere la zona di Coban in tempo, dovrò partire di buon ora. Infatti mi sveglierò alla 4.30 ed alle 5.30 sarò già in strada. Il paese è ancora immerso nell’oscurità, ma riesco comunque a trovare la strada giusta. Ridiscendo verso Sacapulas con gli occhi bene aperti e i fari accesi. L’adrenalina mi aiuta ad accorgermi di un enorme masso, caduto nella notte e che mi occupa quasi per intero la mia carreggiata a pochi metri da una stretta curva. In un altro caso sarà una seconda frana di terriccio che, anch’essa, invadeva quasi metà della strada. Sono situazioni che possono creare incidenti pericolosi per la propria incolumità, in grado di farti finire fuori strada. Anche a  Sacapulas devo prestare molta attenzione nel salire fino a Chichicastenango. L’alba però sta maturando e la strada poi non è più così malvagia, consentendomi un andatura spedita. Nei pressi di Quiche però ridiventa orrida con buche gigantesche. Una disattenzione, una sottovalutazione e il viaggio potrebbe dirsi finito. Dopo Quiche saranno i tumules che mi tormenteranno per un po’ fino al bivio di Los Encuentros. Via ora veloce sulla Interamericana fino a Guatemala City dove però non riesco ad orientarmi con chiarezza. Domandando, trovo l’arteria principale da seguire, in mezzo ad un traffico pazzesco. Inquinamento alle stelle ed una inquietante sensazione di pericolo. La capitale, infatti, non è sicura. Tutti sanno quanto gli automobilisti siano vulnerabili quando in fila e quasi fermi. Bisogna tenere i finestrini bene abbassati, chiudere le portiere e nascondere ogni cosa possa attirare dei malintenzionati. Sono frequentissimi scippi, rotture di finestrine attraverso i quali poi rubano tutto il possibile. Non mi sento tranquillo e quando, per un errore, sbaglierà la strada finendo in un altro inferno di lamiere, fermerò una jeep di poliziotti armati fino a i denti e mi farò riconvogliare da loro nella direzione giusta. Finalmente la periferia della capitale, per risalire quindi nuovamente a nord. La strada ora è sorprendentemente ampia, sicura. Spingo sull’acceleratore e dopo aver pranzato nei pressi di Coban, supero la cittadina decidendo di visitare un importantissimo sito turistico nelle vicinanze: le grotte di Lanquin. Le indicazioni sono certe, ma non sono sicuro di poter percorrere comodamente gli undici chilometri finali di pista fino al sito. Per fortuna, guidando con prudenza riesco ad giungere a destinazione, trovo un alberghetto nelle vicinanze e mi dirigo subito alle grotte prima che chiudano. Il percorso dentro le grotte è intuitivo, ma preferisco origliare quello che dice una guida ai suoi turisti spagnoli entrati poco prima di me. Queste grotte si infiltrano per diversi chilometri nelle profondità della terra. Si deve stare molto attenti a non cadere. Il terreno, le rocce scivolose, il guano delle migliaia di pipistrelli fanno un mix pericoloso e se non ci fossero le corde fisse alle quali aggrapparsi, si sarebbe sempre col sedere in terra.  Ho letto che quando cade l’oscurità si può stare fuori dal loro ingresso in attesa che i pipistrelli ne escano a migliaia oscurando quasi il cielo. In alcuni punti ci sono curiose formazioni di stalattiti che richiamano a forme animali, alla Vergine, all’altare di una chiesa. L’umidità è altissima. Gocce di sudore mi scendono negli occhi.  Alle 17.30 mi apposto fuori dall’entrata insieme ad altri ragazzi, ma poi si decide di entrare. Calano le tenebre e si incominciano ad avvertire dei rumori strani. Con la luce dei telefonini i ragazzi illuminano le volte vicine della grotta, smascherando il volo di decine di pipistrelli. Me ne sto un po’ li con loro, sentendomi strane presenze svolazzare sulla testa, ma quando deciderò di prendere la torcia dallo zaino, quasi sobbalzerò, puntando verso l’alto. E’ un tuffo al cuore. Centinaia, migliaia di pipistrelli che occupano lo spazio della volta vicino a noi. Staremo li una mezzora come in estasi fino a tornare in albergo. Dopo cena frugale, a letto. Domattina sarà come al solito un'altra levataccia. Parto alle 5.30, ancora nel buio, ed è meglio che mi sbrighi se non voglio restare intrappolato con l’eventuale pioggia. Ci sono delle salite nello sterrato che non riuscirei a percorrere se in un pantano, perciò precorro i tempi e ritorno a Coban. Riparto per Chisec. La strada entra quasi subito in un contesto di foresta. Sto andando verso il Peten, la giungla del Guatemala. Il panorama diventa di colpo più vergine. Distese notevoli di una curiosa veste vegetale che si erge verso il cielo. Giungo a Chisec dove faccio colazione in un locale con appesa alla parete una pelliccia di giaguaro. Questo è un grosso villaggio ai confini della selva. Chiedo alla polizia le condizioni della strada e ne ricevo risposta positiva. Riparto con ai lati le fincas(piantagioni). Piccoli villaggi di poche case e distese infinite di campi coltivati o destinati all’allevamento. Dopo un centinaio di chilometri di strada assolutamente diritta, eccomi a Sayaxche, sulla riva meridionale del Rio de la Pasion. E’ il centro più vicino ad una decina di siti archeologici, molti raggiungibile per via fluviale, ma non posso permettermi ora questa deviazione. Al fiume mi metto in coda con le altre vetture in attesa di attraversare col ferry il rio. Sbarcato sulla riva opposta riparto in direzione di Flores, attraverso piantagioni e ganado. Al villaggio di Santa Elena supero un ponte che mi porta alla cittadina di Flores, sulla riva del lago di Peten Itza. Numerosi alberghi e locali. Si nota che è un sito turistico e punto di partenza per gli straordinari siti della zona, primo fra tutti Tikal. Alloggio al Villa del Lago e dopo una successiva passeggiata, decido di pranzare come si deve al Villa dello chef, su una terrazza di fronte al lago. Gusto un Blanco (pesce locale) a la plancia con papas, arroz e birra. Via ora verso El Remate, nella zona orientale del lago. Il mio scopo è di circumnavigare il lago conoscendone i villaggi che lo costeggiano, ma durante il percorso, noto alcuni cartelloni che pubblicizzano l’esperienza del Canopy tours. Voglio verificare di cosa si tratti, dato che volevo già provare l’esperienza a Panama. Mi dirigo verso il parco nazionale di Tikal dove è il sito. In pratica, per 30 euro, ci sono otto pedane sopraelevate, in mezzo agli alberi che si percorrono sospesi, scivolando attraverso corde in pendenza. Nel frattempo si gode la vista della foresta dall’alto. Accetto e parto. I primi tratti saranno adrenalinici, a tutta velocità, imbracati e sospesi a trenta metri dal suolo, con l’obbligo di frenare con dei guanti speciali, simili a quelli da giardinaggio, con i quali si spinge in basso sulla corda per frenare la discesa e fermarsi in prossimità della pedana successiva. Grande! Ormai però non c’è più tempo per il mio progetto di ammirare i villaggi intorno al lago. Inoltre la pista è pessima e non voglio vanificare tutto proprio ora che sono riuscito con immensa fatica a raggiungere la zona del Peten. Tornato a Flores, acquisto durante una passeggiata un bel vaso d’alabastro per casa e poi ceno ad un locale molto particolare: la Meson de los Mayas dove gusto per la prima volta l’armadillo. Ancora quattro passi fino alla piazza principale dove si sta svolgendo una partita di basket e quindi a nanna. Domani voglio raggiungere l’ingresso del parco di Tikal prima possibile. Infatti, alle 4.30, sono già in strada. Arrivo all’ingresso alle 5.50. Alle 6.00 mi fanno entrare. Sono pochissimi quelli che sono disposti alla levataccia per ammirare il sorgere del sole dalla cima del tempio IV, il più alto del sito archeologico di Tikal. Siamo solo tre auto. Dichiarato nel 1970 patrimonio dell’umanità dall’Unesco, Tikal è l’unico grande sito maya interamente avvolto dalla foresta tropicale. All’entrata, già avverto le scimmie urlatrici. Cerco di trovare velocemente il sentiero per il tempio, ma non è facile. Non c’è ancora nessuno, fa buio e la cartina in dotazione non è chiarissima. Sbaglio sentiero. Non è simpatico trovarsi da soli nella foresta, in questa immensità verde. Finalmente scorgo il tempio. In cima ci sono già cinque persone. Purtroppo il cielo è nuvoloso e non si potrà così ammirare l’alba sulla giungla, ma la nebbie tutt’intorno, il canto degli uccelli, le urla delle scimmie, sono un contorno di magia che porta all’estasi. Nessuno di noi, qua sopra, apre bocca. Tutti in religioso silenzio. Il sole si intravede di tanto in tanto, colorando e schiarendo il manto della selva, immensa, opprimente. Scendo il tempio IV prendendo il sentiero verso un complesso di 38 strutture chiamato El Mundo Perdido, con una grande piramide centrale. Quindi vado all’altro  ripidissimo tempio V che salgo con attenzione fino alla cima. Da qui si vede la celeberrima Gran Plaza, ma vengono i brividi. E’ alto 58 metri e sulla cima presenta una piccola camera profonda meno di un metro. Da qui mi reco alla Gran Plaza salendo subito sul tempio II, alto 38 metri, dalla cima del quale si ammira il celeberrimo tempio I, il tempio del Gran Jaguar, costruito in onore del re Doppio Pettine. E’ probabile che il tempio sia stato costruito dal figlio sulla tomba del re intorno al 700. In passato si poteva salire anche l’uno, ma dopo la morte di due turisti, precipitati dalla scalinata mentre stavano scendendo, ora la salita è impedita. Da qui posso ammirare anche tutti gli altri edifici dell’Acropoli del Norte. Ridiscendo, passeggiando estasiato in questa bellissima spianata, circondato da tutte queste affascinanti costruzioni. Respiro felicità, sono davvero soddisfatto. Il sole balena di tanto in tanto, illuminando a dovere le opportunità fotografiche. Resterò qui per molto tempo, quasi in meditazione, per poi dirigermi al lontano tempio delle iscrizioni. Il percorso per arrivarci è lungo, ma quasi sempre sarò in compagnia solo della natura, notando spesso uccellini e scimmie saltanti sulla volta degli alberi. Sul sentiero dell’uscita uno splendido esemplare di ceiba, albero simbolo del Guatemala. Ripercorro la strada del ritorno sino all’entrata del parco e quindi sino al El Remate dove pranzo gustando un altra specialità della selva: l’agouti, chiamato localmente tepescuintle. E’ un grosso roditore molto presenta nella foresta. Riparto veloce fino a El Poptun. La strada è scorrevole e piacevole. Il traffico quasi inesistente tranne che per due camion cisterna che a velocità folle si imbarcano in sorpassi allucinanti. Ad uno di loro ne ho visto fare uno in curva, invadendo per venti metri la corsia opposta completamente al buio prima della curva. Sarebbe potuto succedere un ecatombe. Raggiungo il pueblo di Rio Dulce alle 15.00.  Devo definire al più presto per il progetto che ho in mente, perciò comincio a chiedere informazioni. Sarà estremamente facile. Nei pressi del ponte e del porticciolo chiedo ad un tale che si dice disposto a portarmi con la sua lancha fino a Livingstone. Vuole cento dollari, ma so che non è caro per affittare una barca tutta per me. Appuntamento domattina alle sette. Mi aiuta anche a trovare un alloggio ed anche in questo mi riterrò soddisfatto. Sistemo le mie cose nella stanza e poi parto in auto alla scoperta del paese. Sorseggio una pina colada in un locale di fronte al fiume e cenerò poi di sera al Yocelyn, gustando una specialità della lontana Livingstone: il tapado, una zuppa di pesce con acqua di cocco e crostacei. Il viaggio sta procedendo bene, senza intoppi che non sia stato in grado di risolvere. Certo è duro alzarsi tutte le mattine così presto, ma se è il prezzo da pagare per godere appieno delle potenzialità locali lo pagherò, fino in fondo. Come quest’oggi quando alle sei sono già in piedi a fare colazione con un sandwich acquistato al ristorante ieri sera. Sistemo il mio zaino infilandoci dentro anche il costume da bagno e un asciugamani. Al molo e poi via. La giornata non è bellissima, ma intanto posso godere già a centro fiume dell’islas de los pajaros. La circumnavighiamo ammirando al meglio, e da più parti, tutti i cormorani e le garcas che affollano i rami degli alberi. Il Rio Dulce è lungo 48 chilometri e largo in alcuni punti persino due. Sulle sue rive capanne spartane, ma anche costruzioni più belle con attraccati a riva catamarani di pregio. Sono spesso uomini in pensione che hanno deciso di trascorrere il loro finale di vita immersi nella natura. Ogni tanto qualche yacht, anche se questi si vedono maggiormente a fine estate, quando nel mar dei Carabi imperversano gli uragani. Sembra infatti che questi disastrosi cataclismi non raggiungano quasi mai l’interno del Guatemala e per questo i ricchi americani si spingono fin qui con le loro belle imbarcazioni. Talvolta piccole barche e canoe di pescatori che poi venderanno il pescato ai ristoranti della riva o di Rio Dulce. Il nostro è uno scorrere lento in un mondo naturale come dovrebbe essere, senza rumori e confusione. Altro isolotto, Cayo Palomo, sul quale noto anche i buitres(avvoltoi). Continuiamo la discesa del fiume fino ad Agua Caliente. E’ un luogo singolare. Sulla riva hanno costruito una specie di piccola piscina con delle pietre e aperta al fiume, così da intrappolare parzialmente l’acqua calda che sgorga da sottoterra. Mi ci immergo mentre trattengo a stento una smorfia di dolore per l’alta temperatura di queste acque. Nuoto per un quarto d’ora, mentre la mia guida chiacchiera con dei suoi conoscenti. Si riparte. Il tempo volge al brutto. Le nuvole sono grigio scure e comincia a piovere. Per fortuna la lancha è provvista di tettuccio e mi ci riparo sotto, ma come sarà la visita di Livingstone? Smette, per poi ricominciare nuovamente. Cominciano a vedersi le prime case del villaggio garifuna. Ecco infine il porticciolo sulla foce del Rio Dulce sul mar dei Carabi. Vengo condotto fin sulla strada principale e mi da appuntamento alle 15.30. Livingstone è diversa da tutte le altre località del Guatemala. Non è collegata al resto del paese tramite strada e perciò la via acquatica è l’unica soluzione nonostante nella cittadina circoli qualche autovettura. Sembra che qui passi un notevole traffico di droga e che di sera ci siano frequenti zuffe. La popolazione garifuna ha origine nell’isola caraibica di St. Vincent, dove nel XVII secolo gli schiavi africani naufragati si mescolarono ai nativi. Quando i britannici, dopo aspre lotte, riuscirono a sottomettere l’isola nel 1776, decisero di deportare i garifuna. Molti morirono di fame sull’isola di Roatan al largo dell’Honduras, mentre gran parte di loro si stabilì nella zona costiera di Trujillo. Da lì si sparsero lungo tutta la costa. In Guatemala, la comunità maggiore è proprio qui, a Livingstone. Molti neri si dondolano flemmatici con le loro tipiche movenze. Alcuni hanno capigliatura rasta. Pioviggina, così decido di concedermi una fetta di torta ed un caffé in un localino, rimettendomi poi in marcia con il mio ombrellino da viaggio. Raggiungo il litorale, dove la spiaggia di sabbia nera non mi pare così invitante a un bagno, nel caso il tempo si mettesse al bello. Avevo sperato di concedermene uno. Nel frattempo ammiro le case variopinte dei locali, spesso costruite in legno. Il tempo migliora. Deboli raggi di sole sembra tentino di farsi breccia tra le nuvole. Fermo un taxi e mi faccio portare ad una spiaggia di cui ho sentito parlare bene. E’ a qualche chilometro, ma non fa niente. Giunto a destinazione e preso appuntamento con l’autista perché mi torni a prende fra un ora, supero un ponticello accedendo alla spiaggia. La percorro fino ad una struttura balneare dove mi concedo un buona nuotata. Ritornato in seguito col taxi in centro, pranzo all’Happy Fish gustando un filetto di robalo con agua de coco. Passeggio ancora un po’, una pina colada e poi si riparte verso Rio Dulce.  Il ritorno è quanto mai piacevole, prendendo il sole completamente sdraiato sulla barca. Giunti a destinazione, saluto la mia guida, e faccio ritorno in albergo. Rapida sistemazione di cose e fuori ancora per cambiare dollari, necessari al prosieguo del viaggio. Di sera cena al Zuly con mojarra  a la plancia. Il decimo giorno di viaggio inizia molto presto, come al solito. Alle 5.30 sono già in auto con l’idea di raggiungere il posto di frontiera con l’Honduras di El Florido. Naturalmente non posso entrarvi con la mia vettura, così cerco un luogo dove parcheggiarla in sicurezza. Chiedo ai militari di frontiera e mentre parlo con loro un uomo si offre di tenermela nel suo giardino Bene! Poco dopo sono già in fila per ottenere il visto di ingresso, necessario all’immigrazione. Un pulmino mi porta in seguito giù fino a Copan Ruinas e quindi fino al parco. L’ingresso al sito archeologico di Copan costa 30 dollari e subito dopo, un sentiero conduce fino alle rovine dopo aver ammirato degli splendidi esemplari in libertà di ara macao e di agouti. Poche centinai di metri ancora ed eccomi nella splendida piazza, dominata da decine di bellissime steli, molte di loro in perfetto stato di conservazione. L’antica città di Copan è uno dei più straordinari esempi del periodo maya, paragonabile a Uxmal, Tikal, Chichen Itza. Copan fu abbandonata intorno al 1200, quando i contadini la restituirono alla giungla. Nella Gran Plaza, dove mi trovo, ci sono gigantesche steli fittamente scolpite che ritraggono i sovrani locali. Molte datano l’anno 600 - 700. Spesso, di fianco o al di sotto di esse, c’erano delle nicchie in cui si potevano depositare sacrifici e offerte. Molte steli ritraggono il re Coniglio 18. Nella piazza ci sono anche delle strutture, non imponenti e degli altari, uno molto bello a forma di testuggine, altri con terrificanti rappresentazioni di Chac, il dio della pioggia. Un'altra presenta due teste di serpenti. Resto molto tempo in questa splendida piazza, quindi mi reco al juego de la pelota. Già ne avevo ammirato uno in Messico, a Chichen Itza. Questo è considerato il secondo più grande dell’America latina. Sui muri inclinati si distinguono distintamente delle teste di macao scolpite. Più avanti ammiro il monumento forse più bello di Copan: la scalinata dei geroglifici. Opera del re Conchiglia Fumo, oggi c’è un tetto che la ripara e lo tutela dalle intemperie. La rampa di 63 gradini riproduce la storia della casa reale di Copan in diverse migliaia di glifi. Dietro al vicino tempio delle iscrizioni giungo al patio occidentale, dove apprezzo il famoso altare Q, una delle migliori sculture del sito. Lungo i suoi lati, sono superbamente scolpiti a rilievo i 16 grandi re di Copan. Al patio orientale invece ci sono i tunnel di Rosalila e quello de los jaguares. Al pubblico sono aperti parzialmente, mostrando lungo l’angusto percorso sculture pregevoli riparati da schermi di plexiglass. La visita è terminata. Sono contento di essermi concesso anche questa escursione, per niente scontata all’inizio. Non potrei chiedere di più al viaggio e con un taxi giungo alla piazza di Copan Ruinas. L’acciottolato per le strade, gli edifici di mattoni bianchi coi tetti di tegole rosse, sono davvero affascinanti. Faccio un giro della piazza, visitando la sua chiesa coloniale restaurata di recente e mi faccio indicare un buon ristorante per concludere alla grande. Andrò alla Llama del bosque, dove gusterò un ottimo churrasco con frijoles e aguacate. Acquisto un paio di souvenir e ritorno nella zona dei pulmini che portano in frontiera. Ritiro l’auto dando una mancia al gentile uomo che me l’ha custodita e ridiscendo la valle. Non me la sento di raggiungere Guatemala city. Sono troppo stanco, perciò decido la sosta a Chigimula. Cena fantastica al Parillada de Colero a base di carne alla griglia e torno all’hotel Hernandez per il meritato riposo. Ultimo  giorno di viaggio e anche oggi parto alle 6.30, raggiungendo la capitale alle 10.00. Trovo abbastanza in fretta un alloggio e quindi inizio la visita della città. Dal vicino Parque del Centenario, con un taxi mi reco al Parque Minerva per vedere la famosa Mapa en rilieve, in pratica una grandissima cartina del Guatemala all’aperto, dove posso ammirare, dal basso e da giustificate torrette, le varie parti del paese, con montagne e laghi. Torno al centenario e proseguo verso sud. Ammiro il tristemente noto quartiere generale della polizia, dove al suo interno furono perpetrate atrocità inaudite e quindi giungo al Parque Concordia, costellato di statue di bronzo, ma anche ricco di un amanita locale variegata. Resto per un po’ seduto su una panchina ad osservare interessato. L’iglesia de San Francisco lì vicino non mi impressiona un gran ché. Pranzo al Pollo Campero e dopo un salto ai grandi magazzini Capitol, mi dirigo nuovamente al Parque del Centenario. Ammiro il bel Palacio Nacional, eretto con funzione di palazzo presidenziale fra il 1936 e 43 sotto la dittatura di Ubico. Fu costruito con grande perdita di vite umane col lavoro dei carcerati. Nelle vicinanze, l’altra grande attrazione della piazza:la Cattedrale metropolitana, costruita tra il 1782 e il 1815. Nonostante i numerosi terremoti è riuscita a resistere alle prove e a non richiedere troppi lavori di restauro. Possiede imponenti navate e un bell’altare. Ma al di la di tutti i luoghi di interesse monumentali,  scoprirò che la vera meraviglia di questa città risiede nell’incredibile spettacolo che offre all’esterno la sua gente. Oggi è domenica, perciò giorno ideale per ammirarvi la vita che vi si svolge Non credo di aver mai visto uno spettacolo umano così bello, se non a Marrakech in Marocco. Ci sono bancarelle che vendono prodotti di souvenir e di vestiario, cibarie. Un gruppo di ballerini, vestiti con i costumi maya d’un tempo, circondati durante la loro performance da decine di persone. Vengo attirato li vicino da un predicatore evangelico, che con la sua oratoria esageratamente colorita sta mandando quasi in trans  i fedeli che lo seguono, alcuni a bocca aperta. Ma da nessuna altra parte al mondo ho avuto occasione di assistere a queste curiose rappresentazioni religiose. Più distante c’è un gruppo musicale. Dapprima penso siano normali canzonette per rallegrare gli animi, ma poi m’accorgo, dallo sguardo serio dei due cantanti, che si tratta di canti religiosi. Le strofe, d’un tratto paiono risuonare nell’aria, marcandoci il loro verbo, mentre i fedeli attorno sembrano come invasati. Alcuni di loro tengono le braccia aperte, altri guardano il cielo, altri ancora hanno gli occhi chiusi e paiono in trans. Naturalmente sono più i fedeli maya e le donne che paiono assorbire l’imput dei predicatori. Talune ripetono cantilenando il ritornello, forte, sempre più forte ed eccitate. Faccio una parentesi a questa incredibile immersione d’umanità e mi reco nella via del mercato dove avevo notato una pasticceria. Sosta godereccia, per rientrare poi nella bolgia della piazza. C’è una piccola zona isolata con una puzza di inconfondibile urina e panchine zeppe d’ubriachi e diseredati. Assisto poi allo spettacolo di maghi e venditori, ma mai mi sarei aspettato di osservare la vendita in pubblico di miracolosi unguenti in grado di ridare brio all’imput sessuale maschile. Giù a terra, incredibilmente, sono appoggiati organi sessuali in bella erettiva mostra. Ancora suoni e canzoni dei predicatori, dove infine assisto allo svenimento di una ragazza particolarmente posseduta. Torno in albergo a cambiarmi per la cena che godrò all’Arran Cuan. Per la prima volta assaggerò la zuppa di tartaruga e di secondo pepian di pollo con il tomalito (pasta di tortilla avvolta in una foglia di platano). Grande giornata anche quest’oggi penso mentre me ne ritorno in albergo. Finalmente mi posso svegliare alle sette. Colazione  ed esco alle 10.30 dirigendomi alla Tamburini rent a car dove riconsegno l’auto, dopo 2500 chilometri. Alle 15.00 parto alla volta di Miami e, dopo altre insopportabili ore d’attesa al locale aeroporto e poi al Kennedy, finalmente mi imbarco per l’ultima tratta che mi riporterà a casa. Ottima esperienza che resterà per sempre, e con piacere nel mio personalissimo bagaglio dei ricordi.

 

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