1998 INDIA - Orissa e CALCUTTA

 Le tribu adivasi dell' Orissa e la tragedia di Calcutta

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Bhubaneswar - il torana del tempio di Mukteswara

Questo viaggio è stato un piccolo capolavoro di pianificazione e per la prima volta ho tenuto personalmente i contatti tramite internet con una tour operator locale nello stato dell’Orissa che mi ha fornito auto, autista e guida. Spacciandomi per un fotografo dell’università di Milano ho ottenuto di conoscere molto più approfonditamente la realtà delle tribù adivasi di questo stato indiano così interessante dal punto di vista etnico ma anche paesaggistico e monumentale. E’ il 4 dicembre quando per l’ennesima volta saluto a malincuore la famiglia volando da Linate alla volta di Francoforte dove un volo intercontinentale mi scarrozza fino a New Delhy. Purtroppo la sequenza delle coincidenze aeree non mi è favorevole e qui vi dovrò rimanere dalle 2.30 fino alle 10.30 ora del volo interno verso la destinazione finale, la capitale dell’Orissa Bhubaneswar. Prendo un taxi fino all’aeroporto domestico nei pressi del quale decido di riposare in un piccolo alberghetto per evitare di trovarmi troppo stanco domattina. Riesco a riposare qualche ora e alle 7.40 del mattino sono già in strada a trascinare la mia valigia per il chilometro che mi separa dall’aerostazione. Atterro a Bhubaneswar e ad attendermi c’è Sudarsan, il vicepresidente della Swosti travel con Jahir, colui che sarà la mia guida durante il viaggio. Loro mi credono un personaggio importante ed è per questo che si è scomodato persino il vice capo. Fuori ad attenderci è il driver che mi accompagnerà con Jahir per tutto il tempo. Una puntatina al mio hotel Siddharta per lasciare le valigie e subito in strada per il tour della città. Il primo tempio che visito è quello di Arasurameswar, in stile shikara,  forse il più bello dei quattro stili presenti in Orissa. Per la visita dell’interno e del cortile è obbligatorio togliersi le scarpe. Jahir è fin troppo dettagliato nelle spiegazioni e scopro subito l’elevata competenza storica ed artistica del ragazzo che mi indica già l’identità dei vari Dei in bassorilievo che impreziosiscono la costruzione. Ecco perciò Shiva, Vishnu, Parvati, Ganesh, Laksmi ed altri. Molte statue sono rotte e questo è dovuto all’eredità Moghul. All’interno c’è il ”sanctum sanctorum” con un lingam, simbolo di Shiva. Molto vicino al tempio c’è il più bel Mukteswara, davvero un piccolo gioiello di architettura dell’Orissa. Anch’esso in stile Shikara è però accompagnato da un secondo in stile piramidale. Di fronte è uno stupendo torana, arco decorativo posto nei pressi dell’ingresso. Il torana è davvero un opera d’arte ed è impreziosito con  sculture di coccodrilli ed asceti in meditazione. Sul tempio svetta invece un leone, simbolo dell’induismo (il buddismo ha invece l’elefante). Bhubaneswar ha circa un milione di abitanti ed è una tipica città indiana con qualche grande viale di negozi, uffici commerciali e politici circondati da una brulicante umanità dedita all’arte del sopravvivere. Molto noto è  il complesso del tempio di Lingaraja, ma vietato ai non Indù. Si può ammirarlo solo da una balconata vicino al muro di recinzione. All’interno ci sono 50 templi costruiti in varie epoche(VII – XII sec.). Il più alto, con i suoi 45 metri ed in stile shikara è completamente istoriato di bassorilievi. La visita durerà circa due ore fino a che si torna in Swosti per definire i dettagli del viaggio che comincerà domani. L’avvicinamento ad alcune tribù come i Dongarya Kondh ed i Bonda sarà da verificare in loco grazie anche ad una guida locale che farà il possibile per portarmici. Tutto sta andando come nelle previsioni. L’indomani, colazione in camera alle 5.00, appuntamento giù alle 6.00 e via lungo la prima tappa che sostanzialmente è di trasferimento fino a Bissam Cuttack a circa 500 km da qui. L’Orissa, come il Madhia e l’Andra Pradesh sono stati indiani dove è forte la presenza di adivasi. In lingua locale vuol dire coloro presenti già in periodo pre-ariano  cioè prima che le tribù indoeuropee colonizzassero il subcontinente indiano. L’India ha conosciuto momenti di fervore induista e buddista ma gli adivasi sono sempre stati animisti conservando sempre una certa autonomia ed indipendenza. Sono tribù che vivono sulle colline, nella foresta, spesso in zone impervie e non facili da raggiungere. Certo oggi le cose sono cambiate e il governo indiano ha per loro progetti di ”indianizzazione”. Offrono loro spesso costruzioni più sicure, con tetti in lamiera o tegole, cercando di dar loro anche un istruzione ma così facendo si cancellerà pian piano la loro cultura. Per chi come me ha già una conoscenza del paese la maggior parte delle tribù non offre motivo di interesse dato che sono ormai genti affrancate ed indianizzate. Un tempo ognuna di loro aveva un suo patrimonio culturale. Molti di loro vivono vicino ai villaggi indiani e l’influsso locale ha modificato strutturalmente i loro usi e costumi. Mi sono letto prima di partire il libro di Norman Lewis sul viaggio da lui realizzato in queste zone circa dieci anni fa ma in epoca moderna questo è un lasso di tempo che può modificare molti dei tratti particolari che venivano evidenziati nel testo. Il mio scopo è principalmente di conoscere due etnie che tenterò di avvicinare nei loro villaggi sparsi sulle colline. I normali tour portano a conoscerli nei vari mercati settimanali ma questo è un modo troppo superficiale perciò mi sono riproposto di andare di trekking nel loro mondo. Intanto si prosegue lungo una strada scomoda e trafficata fino a Berhampur. Mi ero dimenticato di come sia terrificante la guida locale!. In Italia, ogni cinque minuti di guida di un indiano sarebbe sufficiente per giustificare il suo ritiro della patente. Io non sono certo un novellino ma in alcuni casi pare davvero di vedere la morte in faccia. In pratica si usa(anche per colpa della strada stretta) guidare verso il centro della strada e quando si incrocia un altro mezzo si instaura una sorta di lotta psicologica a chi si sposta per ultimo. Il risultato è che solo all’ultimo decimo di secondo i due si scartano lateralmente facendosi un pelo a dir poco millimetrico. I loro scarti con davanti magari camion paurosi da venti tonnellate sono da antologia del terrore. Io non mi sono impressionato nemmeno nell’inferno dello Zaire con i morti per la strada ma la guida indiana è davvero da palpitazione e ad ogni incrocio di veicolo ti sembra di uscirne da miracolato. Prima sosta a Taptapani dove ci sono delle sorgenti calde all’interno di un area più grande dove alcune scolaresche stanno facendo picnic. Le sorgenti sono abitate da un Dio della fertilità e l’acqua solforosa che sgorga a temperature di 100°c.  da una fenditura della montagna viene poi pompata in una piscina. Non si può stare in acqua che pochi secondi. Le donne sterili, specie di Shuda Saora devono prendere dei semi che giacciono in fondo ad essa e se riusciranno torneranno a casa con rinnovate speranze. Lasciata la località si prosegue fino al villaggio appunto di Shuda Saora che però non mi provoca grandi emozioni e così, dopo una breve sosta per pranzare si riprende il martirio della guida. Dopo spaventi stradali a ripetizione eccoci arrivati a Bissam Cuttack dove ci rechiamo prima all’ospedale cristiano gestito da una donna inglese. Monto la mia tenda nello spazio in giardino mentre Jahir va alla polizia per avvertire che domani andremo dai Dongarya Kondh. L’indomani si parte verso sud e dopo la stazione saliamo attraverso una stradina accidentata fino a Kurli. Il paesaggio è affascinante ed in mezzo ad una natura verdeggiante. Kurli è una sorta di centro amministrativo della zona Dongarya che si estende da qui verso l’interno. Il villaggio è molto spartano e tribale ma ricevono molte visite specie dalle autorità e la loro autenticità culturale è un po’ sfumata. Ci sono capanne in muratura ed altre con tetti in lamiera. Insomma siamo un po’ fuori dal mondo ma è un centro importante di questa etnia ed il fascino è limitato. Oltretutto è meglio non filmare perché senza permesso si potrebbero avere problemi. Si parte per il trekking lungo un sentiero che man mano si fa sempre più stretto fino ad un piccolo villaggio. Siamo in quattro a partire infatti, oltre a Jahir e l’autista, c’è anche una guida locale salita a Bissam Cuttack ed ora addirittura in cinque aggiungendosi un rappresentante del villaggio che ha la responsabilità di comunicare  a Kurli di qualche problema che potrebbe esserci nei vari villaggi sulle colline. Si sale, si scende e durante il tragitto, grazie a Jahir riconosco palme di sago, cespugli di chili, alberi di tamarindo. Qui siamo in foresta e da queste parti sono presenti serpenti a profusione, come i cobra, cinghiali selvaggi pericolosissimi, orsi e tigri ma si tengono regolarmente alla larga dagli esseri umani perciò sono pericoli più sulla carta che in realtà ed escono prevalentemente la notte per cacciare. Dopo circa un ora di trekking ecco il primo vero villaggio. Questo è un vero incontro, nel loro habitat. Le abitazioni sono unite con un unico lungo tetto di paglia e sono così spioventi che bisogna quasi strisciare per raggiungere la veranda. Sono molto restii a farsi filmare perché pensano che questa pratica rubi loro l’anima. Si dice che questa tribù usi la donna sciamano (Bejumi) e che dopo anni di preparazione diventano medium e praticano la divinazione. Loro non possono avere rapporti sessuali ma contraggono matrimonio per la vita con i loro spiriti. Qui però lo sciamano è un uomo e si chiama Janni. Ogni villaggio e tribù ha un suo totem che rappresenta un animale di cui non si nutriranno mai. Le donne portano tre anelli al naso oltre ad un numero sulle orecchie. Delle forcine tengono in piega i loro capelli neri e lisci. Polli e maialini girano indisturbati nel il villaggio come ora faccio io in tutta tranquillità assorbendo la magia di questo luogo. E’ un autentico privilegio godere di questi momenti e me ne rendo conto. Come altre tribù della zona anche i Dongarya hanno una curiosa abitudine infatti i matrimoni vengono fatti fra donne molto più anziane dei loro partner maschili e non è infrequente che una ventenne si sposi anche con ragazzi di 12 -13 anni. In alcuni casi la donna non riesce ancora ad avere rapporti sessuali col partner perciò è usanza averli col suocero o con qualcuno dei suoi fratelli maggiori. Visito anche due abitazioni che sono adibite a “ghotul”, luogo dove i maschi portano le ragazze per avere rapporti amorosi e questi posti non sono ben visti dai governativi. La giornata prosegue in mezzo a queste realtà fino a sera quando ho sperato di godere di una danza in mio onore ma quando mi sono reso conto della poca autenticità vi ho rinunciato un po’ amareggiato ed arrabbiato con la guida Jahir e quelli che ci hanno accompagnato. Ritorniamo di gran carriera a Kurli dopo aver camminato nella foresta di sera col reale pericolo di animali feroci e col solo uso della torcia. Monto la tenda in tutta fretta e mentre sono all’interno sento che le mie guide parlano fra loro sicuramente commentando il mio sfogo. Non mi interessa! E questa servirà forse per far capire loro che sono un viaggiatore e non un turista della domenica. La sveglia è fredda più delle condizioni atmosferiche e nessuno mi saluta. Solo Jahir mi avverte che partiremo un po’ più tardi per non dover rischiare con sentieri troppo sdrucciolevoli. Si parte verso la collina sud ovest con le mie tre guide che camminano come treni. Ho l’impressione che quest’oggi mi porteranno a visitare qualche villaggio lontano perciò dovrò gestirmi bene a livello fisico. Il disagio di ieri sera non si è ancora risolto e solo Jahir osa rivolgermi la parola indicandomi di tanto in tanto qualche albero particolare di jackfruit, mango, oleandro e blackburry. Finalmente ecco un villaggio ma è poco abitato. Le donne sono al ruscello a lavare i panni e gli uomini stanno coltivando o raccogliendo  i frutti della foresta che in parte venderanno domani al mercato di Chatikona dopo un viaggio che noi occidentali non possiamo nemmeno immaginare. Alcuni maialini vagano nel minuscolo insieme di capanne immerse nella vegetazione.  E’ un esperienza da orgasmo essere qui. Siamo infatti molto lontani da Kurli e qui i Dongarya Kondh vivono per i fatti loro. Ci sono due file di case parallele e noto alcune porte finemente intarsiate. Una donna è sulla veranda e dall’interno  della casa giungono lamenti. Jahir viene a sapere che è suo figlio piccolo ed ha febbre malarica da più di un anno. Si riparte in mezzo ad una vegetazione lussureggiante e dopo un lungo percorso in discesa ecco in lontananza un altro villaggio davvero speciale. Entrandovi l’atmosfera è serena, tranquilla. Qui la gente frequenta il mercato di Chatikona ma ha conservato bene la loro identità. I bambini piccoli quando mi avvicino piangono e perciò sto attento a non disturbare. In molti casi vengono loro raccontate leggende di bianchi inglesi che vogliono rapirli per mangiarli. Quelli più piccoli sono impauriti perché probabilmente è la prima volta che vedono un bianco. Qui sono davvero dove volevo essere e si gusta il vero senso della scoperta, dell’unicità, dell’avventura. Non sono abituati ad accogliere stranieri e dopo aver filmato e fotografato in libertà mi siedo con tutti loro. Uno affila un coltellino, un altro sistema il ginger per terra ed altri parlano con le mie guide. Gli uomini usano tenere un pettine fra i capelli mentre le donne si agghindano con moltitudini di collanine sul petto. Mangio un po’ di crackers offrendone alcuni a dei bambini entusiasti. Vorrei che tutti i viaggi potessero regalarmi questi momenti!. Mi concedono di entrare in una loro casa e cosi, tolte le scarpe lo faccio. Oltre la porta, che ha pregevoli intarsi zoomorfi c’è una sorta di ballatoio con legni ed utensili. Poi si entra nel locale dove è presente un filo per stendere la biancheria. Sopra qualche pentola ed in mezzo un buco per pestare il riso. C’è anche una pietra piatta che serve per ricavare farina di miglio. I muri esterni sono decorati con pittura vegetale. Fuori un bambino ha delle campanelline ai piedi  messe dai suoi genitori per evitare che si possa perdere. Mi ricorderò per sempre di questa giornata in mezzo ai Dongarya che un tempo facevano anche sacrifici umani e dopo spargevano la carne della vittima sul terreno per aumentare la fertilità del terreno. Non solo loro ma anche i Bonda avevano questa usanza ed erano soliti regalare alle tribù amiche dei pacchettini con la carne del sacrificato. Nel 1851 il maggiore Campbell stroncò questi riti religiosi ma non fu semplice perché i Kondh erano convinti che vi fosse una proporzione matematica fra vittime immolate e prosperità dei campi. Molti davano dei bambini che venivano cresciuti per questo scopo da donne pagate per allevarli. Venivano uccisi dopo averli ubriacati. I meriah, così venivano chiamati, vennero scoperti dagli inglesi che li diedero ai missionari. Ritorniamo con fatica a Kurli e quindi a Bissam Cuttack dove per la notte ci accampiamo sempre nel cortile dell’ospedale. La nottata sarà più gradevole grazie alle coperte dei sedili dell’auto che hanno risolto bellamente il problema della temperatura esterna di circa 8 - 10°c. Partiamo verso il famoso mercato di Chatikona dove oggi arriveranno i Dongarya che scendono dalle colline per vendere le loro cose. Prima però ci rechiamo ai piedi di una di esse dove sfocia la pista per Kurli. E’ da qui che arrivano la maggior parte di loro. Ci sono 53 villaggi ed alcuni sono davvero lontani(3 - 4 ore di buon cammino). Scendono con sulla testa carichi incredibili. Cesti pieni di patate, ginger, frutti e prodotti dei loro campi. Al loro arrivo sono accolti ma sarebbe più appropriato dire bloccati dai Domb, un etnia indianizzata che vive in alcuni villaggi nei paraggi. Sono abilissimi commercianti, quasi usurai. Approfittano dell’ignoranza dei Dongarya per comprare da loro a poco prezzo merci che poi loro stessi rivenderanno al mercato. I Domb li convincono spesso ad accettare da loro prestiti in denaro alle volte per bisogni futili per poi essere fagocitati da interessi usurai non riuscendo più ad uscire dal circolo vizioso. Alle volte un Dongarya può essere succube per tutta la vita e quando i Domb appostandosi come falchi li vedono arrivare gli tirano giù la cesta dalla testa senza troppe garbate maniere. Sventolano soldi davanti al naso dei tribali ed hanno anche il cattivo gusto di presentarsi con costose motociclette. Ci rechiamo poi al mercato che è diviso in vari reparti. C’è un lato degli alimentari e poi quello dei tessuti, degli utensili e degli oggetti per la casa. E’ giunto il momento di partire!. E’ infatti in programma una lunga tappa fino a Koraput.e Jeipore, a sud. Si passano piccoli ponti salendo su colline verdeggianti. Dopo Jeipore il paesaggio cambia e così anche la densità umana. Non sono molti i turisti che scelgono di andare fino ai Bonda perché la strada è lunga e vederli solo al mercato non conviene dato che è proibito salire fino ai villaggi a meno di autorizzazioni particolari. Oltretutto questi tribali sono notoriamente aggressivi ed una visita da queste parti deve essere ben organizzata e ponderata. Il Bonda ancora oggi usa talvolta rapire la propria donna e successivamente organizza un meeting fra lui ed i  genitori della rapita che così potrà continuare a vivere con il suo rapitore dopo il pagamento della dote che di solito corrisponde ad alcuni animali. I Domb si guardano bene di venire fin quassù perché non sarebbero trattati certo come i Dongarya. Arriviamo al distretto di Machmund e Jahir mi prega di avvertirlo quando ho  intenzione di filmare o fotografare ed in caso di domande da parte della polizia devo asserire di essere un antropologo  e che li fotograferò solo al mercato. Siamo in un posto un po’ sinistro, tetro. Ci rechiamo all’ispection bungalow dove aspetto per mezzora in attesa di avere  la chiave di una stanza dove potrò pernottare. Per fortuna la stanza è accogliente  e stanotte dormirò in modo confortevole. Sistemo le mie cose mentre Jahir va alla polizia per denunciare il mio arrivo. Saprò al suo ritorno che ha pagato 400 rupie a un poliziotto per garantirmi una sicura escursione ai villaggi Bonda. Ha anche trovato una guida locale che mi risulta avere uno sguardo profondo e penetrante. Siamo in un specie di terra di frontiera e di sera usciamo in un localino tetro a mangiare due uova con patatine. Più a sud c’è una restricted area dove vivono i Kutia Kondh e poi ci sono le foreste dell’Andhra Pradesh. E’ una zona pericolosa perché vi si nascondono i Naxaliti, terroristi con alleati alcuni tribali che vogliono creare una piccola nazione indipendente. Per finanziarsi vendono la marijuana che coltivano sulle colline. La mattina seguente ci rechiamo dapprima al mercato di Anukkadelli, il mercato Bonda ma prima andiamo ai margini della foresta da dove  loro scendono per andare al mercato. Li aspettiamo ed ecco finalmente che arrivano!. Jahir mi avverte di filmare solo le donne perché i maschi potrebbero avere reazioni spontanee spiacevoli e magari spararmi una freccia. Tra tutte le etnie presenti i Bonda sono quelli più aggressivi ed anarchici. Cominciano a scendere i primi di loro. Sono donne e sono agghindate in modo originale con un gonnellino essenziale che copre loro le nudità. Una miriade di collane scendono loro fino all’ombelico. Sono fatte di perline colorate come anche il copricapo che nasconde la nuca completamente rasata. Indossano grandi orecchini finemente decorati . Alcuni uomini scendono con il loro arco e frecce Ormai non le usano quasi più  ma fa parte dei loro accessori, come la “jambiya” per gli yemeniti. Riesco con non poca difficoltà a comprarne uno da loro. Scendono alcune donne che hanno dei collari al collo un po’ come gli Hammer dell’Etiopia del sud. Sono più fini, ma più numerosi. Un numero elevato di braccialetti completa il loro look alquanto stravagante.  Io, le due guide ed il driver lasciamo il mercato per dirigerci all’interno verso le colline. Si deve assoldare un portatore per le tende e tutto il resto dato che campeggeremo vicino ad un villaggio Bonda. Dopo qualche chilometro raggiungiamo un insediamento Godaba lasciando l’auto in loro custodia. Il portatore sistema almeno 25 - 30 kg di cose in sacchi che ora porterà in spalla. Dopo circa un ora di comodo trekking raggiungiamo il villaggio Bonda. Sono sempre piccoli con non più di 4 - 6 capanne. Gli uomini non ci sono dato che si sono recati al mercato. Noto una grossa capanna, la più solida. E’ quella del capo villaggio realizzata con grosso mattoni di argilla e fango ma il Sindibor, il blocco di pietra megalitico sul quale vengono fatti i sacrifici e i meetings fra gli esponenti più importanti  non è proprio di fronte a questa capanna come dovrebbe ma leggermente spostata. Hindi, una pietra che vuole rappresentare la madre terra è fuori dal villaggio sotto un albero di mango. Non mi fanno visitare l’interno delle case perché dicono che potrebbe entrare lo spirito maligno. Anche oggi grandi esperienze in una atmosfera tranquilla e serena. Mucche e pollame gira indisturbato. Sono 25 gli elementi che vi ci vivono. Nel frattempo, in uno spiazzo li vicino le mie guide hanno montato le tende. Una curiosità di questa etnia è che sono molti aggressivi ma dopo aver magari ucciso qualcuno sono quasi costretti dalla loro etica che gli impone di non dire menzogne a collaborare con la polizia. Anche qui c’è l’usanza di far sposare donne di 20  anni con maschi di età inferiore.  Le loro case sono internamente costituite da due stanze di cui la prima funge da dormitorio, cucina e la seconda da deposito attrezzi e oggetti di utilità. Il tetto è supportato da un certo numero di pilastri di legno. La scelta dello sposo è di loro piacere e quasi mai organizzata. La loro religione è un misto di induismo ed animismo. Credono in Patkhanda Mahapraphu, creatore dell’universo, in Hindi, Dea della terra e Kapurchan deità del ruscello. Il capo del villaggio è il Naik e viene eletto ogni tre anni. Lasciamo il villaggio proseguendo su e giù per le colline fino ad un insediamento di Didiya. Il villaggio è nettamente più grande di quello Bonda e molto meglio organizzato. Le capanne sono rettangolari con ampie e belle verande sulle quali parlano, riposano, battono il riso. I Didiya sono molto meno agghindati e non usano collane intorno al collo ma hanno tre orecchini al naso. Dopo un primo incontro con Jahir, girovago per il villaggio lasciandomi avvolgere piacevolmente in atmosfere antiche, fuori dal tempo. Di fronte allo stesso c’è una bella piantagione di piante di tabacco e noto su alcuni tetti delle fogli e del chili a seccare. All’interno dell’abitato c’è il Gulisung, spiazzo aperto dove si tiene il Panchayat, gli incontri più importanti. L’eredità è patrilineare e se un maschio muore senza figli va tutto al fratello maggiore. Il corpo dei morti viene cremato e nella processione vengono portati anche degli oggetti appartenenti a lui. Anche qua il Naik è il capo villaggio. Esiste uno sciamano e la loro religione ruota tutta intorno alla madre terra rappresentata da una grande pietra chiamata Briba. Lasciamo il villaggio tornando al campo dove tre Bonda gentilmente ci hanno acceso la brace per scaldarci. Più tardi ne arriveranno altri due che ci terranno compagnia e da uno di loro comprerò un bel coltello col manico di dente di cinghiale selvaggio. Questo animale per loro è forse più pericoloso della tigre perché si incontra molto più spesso ed è molto aggressivo. Le nostre tende sono molto attigue con la speranza che orsi e cinghiali non si avvicinino ma non è infrequente che possa accadere. L’indomani sveglia presto e ritorniamo all’auto dopodiché ha inizio una lunga tappa di trasferimento verso la costa del Bengala. Lungo la strada, sosta ad una fabbrica di sisal. Sono foglie di un tipo di cactus, grosse ed appuntite che vengono introdotte prima da una parte e poi dall’altra in una macchina che lavora con una cinghia. L’operaio, nell’atto di introdurre la foglia, rischia ogni volta di lasciarci la mano. La macchina sfibra le foglie che vengono poi raccolte dalle donne  che le lavano e poi le stendono ad asciugare al sole. Queste fibre serviranno per la produzione di corde, materassi e altre cose. Maciniamo ancora chilometri e chilometri notando qua e là la durezza del lavoro nei campi, privo di qualsiasi aiuto meccanico. Mondine che lavorano piegate in due, altre donne che trasportano grandi ceste di pietre o terra. Le tenebre calano e purtroppo non siamo riusciti ad arrivare dove avrei voluto, al Chilika lake così sostiamo al Panthanwas di Taptapani dove per la prima volta riposo veramente bene e di mattina mi sento in forza per affrontare una giornata che si presenta piacevolmente soleggiata. Durante il tragitto verso il lago vengo a sapere da Jahir(musulmano) che il suo matrimonio è stato “organizzato” e attraverso un mediatore gli è stata presentata una ragazza(deve essere vergine) che ha così frequentato fino al passo finale. Dato che è muslim per lui non vale il discorso della dote ma è comunque interessante sapere che fra i tribali sono i genitori del maschio che pagano quelli della femmina mentre nella società cittadina avviene il contrario. Nel frattempo i dintorni si fanno più abitati con una moltitudine di gente impegnata a lavarsi nei posti più impensati. Arrivati al Chilika lake noleggiamo una barca e dopo circa un ora di navigazione arriviamo ad una zona paludosa a poca distanza dalle coste del golfo del Bengala dal quale il lago dista una sottile striscia di terra. C’è una piccola torre di avvistamento da dove si può ammirare il paesaggio circostante ma sono rari i momenti nei quali si può ammirare qualche esemplare avicolo da vicino. Ci sono delle siberian ducks, bramini ducks, cormorani, egrette, ma a paragone, la baia di Valvis bay in Namibia era da infarto miocardito. Dopo un frugale pranzo raggiungiamo Puri e troviamo subito un hotel sulla main road. E’ il Paradise  dove finalmente corono degnamente le mie aspettative gastronomiche con un ottimo pesce locale, un makral dalle carni sode e saporite. Birra e chapati e quindi un buon sonno che apre alla giornata successiva che cominciamo ammirando il bel tempio di Jagannath. Puri è una città molto conosciuta perché è la quarta città santa dell’India ed è meta di pellegrinaggi. Molti sono i templi dedicati specialmente al culto di Shiva. Il tempio di Jagannath è vietato ai non indù e non ne fu permesso l’accesso neppure ad Indira Ghandi a causa del suo matrimonio con un musulmano. Il tempio è enorme ed al suo interno 6.000 uomini sono costantemente al lavoro. Molti sono impegnati nella costruzione dei carri per la festa annuale e ben 4.000 sono necessari per spingerli. Quello principale, su qui sfila Jagannath, è alto 15 metri e pesa più di 15 tonnellate. Poggia su 16 ruote ed una volta in moto è praticamente impossibile fermarlo. Usciamo dalla città in direzione della celeberrima Konark costeggiando i fianchi del Golfo del Bengala. A poca distanza dall’oceano, nel 1904 c’era un ammasso di rovine ma una volta tolta la sabbia ed i detriti venne alla luce l’edificio antico: il tempio di Surya, il Dio del sole. Vi era rappresentato il carro del Dio sole appoggiato su 24 colossali ruote di tre metri di diametro e trascinato da sette enormi cavalli. Il tutto con 30.000 bassorilievi che esprimevano ogni aspetto della vita ma con temi principali l’amore e la passione. Intorno alla monumentale costruzione c’è un campo archeologico. La visita durerà circa due ore ma li merita tutte. Questo luogo infatti, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, ha un fascino notevole e vi furono necessari 12 anni per costruirlo. Sono stanco ed accaldato e quale idea migliore di un buon bagno nelle acque del golfo del Bengala?. Il fondale è basso e si tocca anche a 20 metri dalla riva, l’ideale per Jahir che dice di non saper nuotare. Trascorriamo un paio d’ore di sano divertimento ed al ritorno compriamo un pesce(koro) da un pescatore nel vicino villaggio dove assistiamo al ritorno di alcune barche di lavoratori del mare. Dopo cena ed un breve giro con una bicicletta noleggiata mi rintano in camera non prima di aver montato una zanzariera senza la quale sarei stato mangiato dalle zanzare. Il viaggio in Orissa sta per terminare e domattina ritorneremo a Bhubaneswar. Durante il tragitto Jahir mi fa notare delle capanne di fango con dei disegni prevalentemente floreali. Sono i white paintings e di loro si sta interessando l’Unesco che vorrebbe includerli nel loro elenco ufficiale e nel frattempo sta stanziando somme per evitare che vadano perdute. Queste decorazioni sono realizzate semplicemente con farina di riso ed acqua. Raggiungiamo Dhaoli, sede della pagoda della pace, costruita da monaci buddisti giapponesi nel 1960 nel luogo dove avvenne una grande battaglia tra le truppe del re Kalinga locale  e quelle del grande Ashoka. Ci furono decine di migliaia di vittime e Ashoka estese il suo dominio dopo questa vittoria fino a Lahore in Pakistan e Sri Lanka. Si dice che fu tale  la drammaticità dell’evento che spinse Ashoka, fervente induista, ad abbracciare il buddismo e fu sotto di lui che questa religione ebbe il suo massimo splendore. La pagoda non è comunque un gran ché ma interessante è una grande pietra sulla quale sono scritti gli editti del grande re come molti secoli primi fece Hammurabi nella mezzaluna fertile. Raggiungiamo la capitale ma non  è ancora il momento giusto per fotografare il Lingaraja. Lo farò domattina prima di partire per Calcutta. Attraversiamo la città in direzione delle grotte di Khandagiri e Udaigiri. Noi visitiamo le seconde, più belle. In queste grotte vivevano una volta dei monaci giainisti. Ora sono stati scacciati dagli induisti ma una volta loro dormivano qui e predicavano ai fedeli da alcune piattaforme. Jahir, come sempre dimostra una grande competenza e mi fa notare come molte delle statue presenti abbiano un influenza addirittura romanica ed ellenista. Prima di pranzo passo dagli uffici della Swosti per salutare e poi offro il cinema a Jahir ed al driver. Il film titola Chine gate e trascorreremo due ore di piacevole divertimento. L’indomani mattina ci rechiamo al Lingaraja per la foto dopodiché vengo accompagnato all’aeroporto da dove raggiungerò a breve la famosa “città della gioa”. L’aereo partirà in orario e dall’alto si riesce ad ammirare la palude del parco nazionale del Sundersan a circa 100 chilometri da Calcutta. Atterrato, raggiungo con un addetto della Swosty il Litton hotel, in zona centrale. Durante i 25 chilometri di tragitto siamo fagocitati in un caos bestiale di auto e clacson . A mezzogiorno si presenta in albergo colui che sarà la mia guida in città, un certo Anop. E’ un essere apparentemente insignificante ma che però si dimostrerà conoscitore profondo delle cose della città. Prima tappa al Victoria Memorial, un monumento di marmo bianco inaugurato nel 1921  che era speranza degli inglese potesse rivaleggiare in maestosità col Taj mahal di Agra. Ora ospita un museo di arte moderna e testimonianze di come era la città durante l’era coloniale. Durante la visita sediamo su di una panchina ed in confidenza gli dico di essere un fotoreporter di una università milanese estraendo addirittura una tessera di riconoscimento e che oltre al tradizionale tour della città voglio entrare nel suo cuore visitando il quartiere delle prostitute e gli slums (i quartieri più poveri dove sono i disperati della città). L’opera di convincimento è fatta e spero possa ottenere il risultato sperato. Raggiungiamo in seguito la riva del Gange, qui chiamato Hoogly dagli inglesi ammirando il ponte Vidyasagar, il più lungo dell’India per poi continuare il tour apprezzando edifici politici ed amministrativi come l’assembly house, la casa del governatore, l’high court (palazzo della giustizia) in stile neogotico. Tutti questi palazzi gravitano intorno alla Dalhounes square. Ora è il momento di fare un salto nel quartiere delle prostitute. Non ce n’è solo uno ma 4 - 5 e questo nel quale stiamo entrando è il più grande di tutta l’Asia. Anop mi dice che ne vivono circa 10.000 in un area di circa 500 metri per lato. Il mio intento è quello di fotografare e filmare ma  logico che per farlo devo chiedere il permesso. Per far questo è necessario infiltrarsi e trovare agganci e questo sta avvenendo in modo stupefacente. Entriamo nel quartiere e già si vedono le prime ragazze del mestiere ma sarà dopo aver imboccato una stradina interna che questo mondo si aprirà ai miei occhi. I palazzi degradati a destra e sinistra possiedono entrate occupate da queste ragazze che però sono anche altrove, ovunque e sono solo le 15.30 del pomeriggio. Ce ne sono decine, alcune giovanissime. Anop entra in alcuni negozietti dove conosce della gente  e chiede informazioni. Dopo 10 minuti  questi colloqui ci portano ad un tugurio, un bugigattolo dove c’è un tavolino. Arriva un uomo apparentemente comune, che però saprò in seguito da Anop  è il segretario del capo. Ci dice che la cosa si può fare ma dobbiamo tornare alle 19.00 quando ci sarà lui, per discutere. Poche parole e quindi torniamo all’auto. Rimane del tempo e Anop mi porta a visitare lo stupendo tempio giainista fondato da Rai Badridas Bahadur nel 1867. All’esterno giardini ben curati, statue di marmo e maioliche. All’interno è uno splendore, con migliaia di piccoli vetri colorati che conferiscono all’ambiente una luce abbacinante. Tutto ciò è stato finanziato da una sola famiglia. Pilastri di marmo finemente lavorati, capitelli, bassorilievi, stupendi lampadari fatti venire da tutte le parti del mondo, Belgio e Murano compresi, vasi cinesi della dinastia Ming ed infine una statua tempestate di pietre preziose. Il giainismo è una religione che esaspera il concetto della non violenza e si basa sugli insegnamenti di Mahavira, nato nel 599 A.C. e perciò contemporaneo del Bhudda. Entriamo in un hotel per pranzare e Anop mi parla un po’ di lui. Lo farà  sia in spagnolo che in inglese, due delle tre lingue che parla benissimo. Mi chiarisce alcuni aspetti del quartiere di prostitute e lo fa con dovizia di particolari. Le ragazze vengono quasi tutte dai villaggi poveri del west Bengala, dal Bihar e i contatti solitamente avvengono attraverso un mediatore che arriva nei villaggi ostentando una certa agiatezza e perciò con bei vestiti e auto. Pian piano fa la conoscenza con qualche padre di famiglia in grandi difficoltà a tirare la baracca. Non si deve dimenticare che all’atto del matrimonio c’è anche la dote che devasta le finanze dell’intera famiglia. Dopo questo primo contatto, superficiale, il mediatore sparisce e ricompare magari dopo un mese e quasi mai si parla di lavoro e di figli ma solo di argomenti generali, in modo da non destare sospetto. Dopo 4 o 5 visite ecco che l’uomo esce allo scoperto anche perché ora il rapporto è sincero, di fiducia. Il padre  si confida con quest’uomo di successo  che forse gli può essere d’aiuto per trovare lavoro magari ad una figlia. Ad un tratto, più o meno un mese dopo, una lettera viene recapitata al padre dicendogli di mandare la figlia ad un determinato indirizzo di Calcutta. Lui cade nel tranello e la ragazza non tornerà mai più. Il martirio della ragazza ha inizio con stupri continuati fino a che perderà l’autostima. Solo allora arrivano i primi clienti. In breve la ragazza si abitua e anche se il lavoro è sporco è controbilanciato da un buon guadagno. Lei cambierà personalità lasciando anni luci lontano l’ingenuità che la vestiva al suo arrivo ma  anche se questo non accadrà, il quartiere ha mille occhi dell’organizzazione che comprende ragazzini affiliati, guardie vere e proprie, gli abitanti ormai coinvolti del quartiere.  Le Mashi saranno le donne che controlleranno il loro lavoro. Queste matrone gestiscono 5 - 10 prostitute, a seconda delle camere che posseggono. Una Mashi detiene il potere assoluto su di loro e ne trattiene una parte del guadagno(circa il 25 %). Mashi può diventare anche una prostituta che ha sempre rispettato le regole e che è riuscita a mettere via un gruzzolo per comprare dei locali. Alla prostituta va il 40 % ed il resto è suddiviso fra i componenti dell’organizzazione, esponenti della polizia e tutti i quattro partiti  al potere nella città. Ecco perché anche se la ragazza riesce a fuggire e ad andare alla polizia in pratica si ritrova nella bocca del leone. In India la corruzione è ovunque e dove ci sono soldi e potere tutto si insozza. Mi è sembrato di intendere che l’organizzazione si chiami Palatak. Torno in albergo per chiarire le idee sulle domande da fare quando si riandrà al quartiere. All’ora fissata scendo nella hall dove mi aspetta Anop. Si parte. Devo tenere una maschera di professionalità massima. Ci si inoltra nel quartiere raggiungendo lo stesso luogo di stamattina ma questa volta sono calate le tenebre  ed in giro non si vede niente, tutto è tetro e si scivola. Entriamo in una stanza buia. Portano una candela e poi compare la luce. Mi portano al primo piano dove in un locale mi fanno vedere i bambini di alcune prostitute ai quali l’organizzazione pensa di dare una certa istruzione. Una volta grandi verrà trovato loro un lavoro, usciranno dal quartiere e non vi torneranno mai più. Scendiamo dabbasso e sediamo ad un tavolo. Di fronte a me ho il capo assoluto di una parte del quartiere e gestisce circa 500  prostitute, a destra Anop che fa da mediatore e traduttore in hindi delle mie richieste. Seduto vicino a me c’è il segretario del capo(il contabile, l’organizzatore). In piedi due ragazzi che osservano. Anop comincia  a spiegare chi sono, il mio scopo ed il capo dice che si può fare ma io voglio girare dove desidero senza restrizioni, salire nelle case delle Mashi e parlare con loro, vedere le ragazze sopra e gli ambienti in cui lavorano. Questo si può fare dice ma per filmare è meglio dal primo piano per evitare di creare scompiglio giù nella via. Le ragazze hanno paura di farsi riprendere e poi non mi può far andare dove voglio  perché il suo potere si limita ad alcune vie. In ogni caso deve prima contattare altri esponenti per far conoscere loro le mie intenzioni e prepararli. Potrebbe essere molto pericoloso girovagare senza che si conosca il mio proposito e la mia persona. Dice che con discrezione si può organizzare tutto per domani sera ma per 10.000 rupie. Accetto e ci congediamo tornando verso l’albergo attraverso un mondo di disperati, di senzatetto che si sta organizzando per una nuova notte di indigenza. Le immagine che vedo sono di una drammatica povertà ai limiti della sopportabilità. La città sta per essere conquistata dai senza dimora ed è estremamente pericoloso riprenderli ora cosi organizzo per domattina alle 5.30 mentre stanno ancora dormendo. Per tutta la notte non riuscirò a prendere sonno pensando allo scoop realizzato la sera prima ma sarò continuamente combattuto se accettare la richiesta economica del capo con tutti i rischi di un quartiere simile o lasciare perdere con la scusa di tutelare la mia incolumità considerata la  famiglia in Italia che mi aspetta. Domattina parlerò con Anop e vedremo il da farsi. Magari cambieremo quartiere scegliendone uno meno raccapricciante. Alle 5.20 scendo all’appuntamento con lui e partiamo nel buio della città. Raggiungiamo una zona piena di senzatetto che dormono sui marciapiedi. Il traffico è inesistente e loro sono i dominatori della notte. Sono avvolti in coperte cenciose, prevalentemente in gruppi che possono arrivare anche a dieci individui. L’adrenalina monta e scendo spesso dall’auto inoltrandomi fra loro per filmare. Talvolta ne sarò quasi circondato con l’auto a 50 metri. Qualcuno si gira nella suo coperta e si sta svegliando ma continuo sempre a filmare. Ce ne sono centinaia in giro ed in pratica in ogni via c’è qualche disperato che dorme in questo modo. Ci sono anche molti carretti di uomini cavallo che dormono per terra perché non hanno altro posto dove stare. Molte famiglie intere con bambini, in mezzo ai cartoni. L’oscurità iniziale sta lentamente lasciando lo spazio all’alba ma in generale anche se qualcuno è già sveglio guarda il vuoto con sguardo inespressivo. Molti stanno ancora dormendo mentre i primi carretti stridono e le prime saracinesche vengono alzate. Alcuni di loro hanno dei piccoli fuochi per scaldarsi o cucinare qualcosa. Questa sarà la prima parte dell’esperienza fra i disperati della città che continuerà ora negli slums intorno all’Howrah bridge. C’è sporcizia ovunque e gente che si lava i denti con acqua sporca. Una scalinata attraversa i binari del treno ed anche qui gente che si è appena svegliata. Ora siamo dall’altro lato della ferrovia e Anop conosce della gente per cui potrò riprendere in relativa sicurezza. C’è una fila di baracche costruite coi materiali più disparati. E’ molto pericoloso filmare qui e senza Anop sarebbe impossibile. Scendo a livello dei binari del treno perché incredibilmente anche qui c’è una fila di baracche a non più di un metro dai binari. Ad un tratto mi si avvicina un esagitato che pretende 10 rupie per il filmato. Cerco di contenerlo ma non vuole sentire ragioni. Intanto arrivano altre persone Io guardo Anop ma lui non conosce quella gente e nemmeno il loro dialetto perciò mi consiglia di pagare. Così faccio e mi consentono di risalire. Ritorniamo sul Gange dove forse ci sarà la possibilità di ammirare i lottatori Kusti. Ci sono dei ghats con indù che fanno abluzioni e sadhu che provengono dalle zone himalayane dato che la fa freddo. Questa zona si chiama Akra ed è qui che vivono questi lottatori. Eccoli che si stanno massaggiando con olio di senape!. Questa confraternita è molto rispettata nel quartiere ed a loro si rivolgono gli abitanti del quartiere in caso di dispute. Dopo il massaggio si cospargono di terra che  gli conferirà forza. Assisto ad alcune lotte che assomigliano molto al wrestling con lo scopo di schienare l’avversario. Ritorniamo in hotel e nel frattempo parlo con Anop della mia decisione di non spendere 200 dollari per entrare nel quartiere. Mi dice che nel pomeriggio potrà chiedere a delle persone nei pressi del tempio della Dea Kali in un altro quartiere più piccolo. Mi reco in hotel per ridiscendere quasi subito. Salgo su un carretto di un uomo cavallo e mi faccio portare al Victoria Memorial dove visito il museo all’interno ammirando spade, armi, elmetti, uniformi ed un gran numero di dipinti di ammiragli, politici ed in generale grandi personaggi inglesi ed indiani. Sono presenti anche numerosi libri come i Katang, libri sacri del buddismo tibetano. Di fronte al Victoria c’è il grande parco del Maidan da dove ritorno a piedi al mio Litton hotel. Alle 14.30 ecco Anop con il quale si va in direzione del tempio della Dea Kali. Percorriamo una zona a piedi e noto che conosce molta gente. Si ferma a parlare con una donna che ha in braccio un bimbo dall’espressione strana. Afferma di  averlo trovato abbandonato su un marciapiede. Al tempio della Dea Kali c’è un cortile pavimentato dove di mattina la gente viene a sacrificare capre, galline. Anop cerca ora dei ragazzi e chiede loro di parlare con il capo dell’organizzazione. Questi gli rispondono di tornare fra un quarto d’ora. Cosi faremo ma purtroppo ci dicono che il capo tornerà in quartiere solo dopodomani. La contrattazione continua e sembra che foto e film li potrò fare anche con loro di scorta questa sera, ma senza salire però nelle case delle Mashi. Il tutto mi verrà a costare 1.000 rupie, una somma accettabile. Completiamo nel frattempo la visita della città recandoci nel palazzo delle Missionarie della Carità. L’edificio è anonimo ma Anop mi fa notare la porticina da dove entrava sempre Madre Teresa, la fondatrice. Lui dice che la conosceva bene quella donna e lei era sempre disponibile a ricevere i turisti che erano con lui. Da qui controllava per telefono più di 500 centri sparsi in tutto il mondo. Al primo piano c’è la sua tomba, di marmo, molto sobria e con solo una targa. Nella stessa sala un prete italiano sta tenendo messa in inglese ad alcune suore missionarie che stanno cantando canzoni religiose. Ci sono anche molte novizie che diventeranno suore della carità dopo tre anni di studi. Al secondo piano è una grande stanza con un angolino dove Madre Teresa si raccoglieva in preghiera. Le missionarie si occupano dei bambini orfani che trovano per strada ed anche dei malati, moribondi, coloro che stanno intraprendendo il cammino finale. Il luogo dove sono ospitate queste persone è vicino al quartiere delle prostitute dove abbiamo appuntamento questa sera e si chiama Nirmal Hriday. E’ l’ora di chiusura ma grazie ad Anop posso avere questa esperienza toccante, sconvolgente. Pare di entrare nel luogo della disperazione. Sull’ala di destra si apre una camerata con due corridoi dai quali si accede alle fila dei letti. Cammino fra la morte che sta lentamente aspettando di portarsi via questi poveretti e le missionarie cercano di portarli a quel momento con dignità ed aiuto morale. Esco dal palazzo profondamente segnato man non ho il tempo di pensare dato che i ragazzi sono già li che mi aspettano. Sistemo la mia attrezzatura e mi addentro nel quartiere mentre Anop dice che mi aspetterà in auto. Dapprincipio, per circa 100 metri ci sono solo bancarelle ma poi incomincia la processione delle ragazze. Dicono che ce ne sono 1.000 ed un solo capo. C’è un gran buio e molte di loro quando si accorgono di essere riprese si girano imprecandomi contro.  Molte sono quasi inviperite. Per fortuna i due ragazzi smorzano gli animi più esagitati e tutto fila liscio. Ci sono tantissime ragazze specie all’angolo di oscuri vicoli, nella penombra. Alcune di loro accortesi delle riprese mi si gettano quasi contro spingendomi e dando delle botte alla telecamera ma adesso ai due ragazzi si è aggiunto un terzo che mi controlla da dietro. Tutto il quartiere mi sta osservando e sto provando una strana sensazione inquietante. Non vedo l’ora di tornare alla macchina perché mi sento impotente e fuori posto in questa situazione. In questa città ho avuto esperienze che rimarranno stampate nella mia mente per sempre ma ora devo salutare il mio caro Anop e lo faccio con un regalo, come lui molto carinamente ha fatto con me omaggiando di un ricordo della città i miei due figli. Ritornato in albergo e risistematomi il look mi reco a cenare al ristorante Zarany, il migliore di Calcutta. E’ diviso in due parte a seconda se si vuole cenare indiano o continentale e la posateria è in argento massiccio come i bicchieri.  Una piccola cascata e un conseguente ruscello danno un tocco di grazia ad un ambiente gia di per se affascinante. Io scelgo di gustare naturalmente un menu indiano  cosi opto per un murgh sorba(zuppa di pollo con erbe aromatiche) e zarany raan(agnello cotto in un forno tandoori marinato prima in rum e zafferano).Trascorro una serata da sogno in un ambiente da favola. La mattina seguente sveglia alle 7.00 e dopo colazione  decido di fare una visita all’Indian museum, il più grande museo dell’India ubicato in un palazzo a due piani. Ci sono bassorilievi ed architravi nei vari cortile risalenti al periodo Maurya e Gupta. Intorno ai cortili si aprono saloni dedicati a vari aspetti dell’architettura ed archeologia. Dopo una mattinata di cultura volo verso il magnifico Oberoi Grand, il più lussuoso hotel della città(300 US$ a notte) dove in uno dei due ristoranti gusto una superba bekti(pesce del Gange) con contorno di verdure. Il viaggio è finito e raggiungo l’aeroporto dove con un volo interno dell’Indian airlines ritorno a New Delhi. Con un taxi raggiungo l’aeroporto internazionale riprovando per l’ennesima volta i brividi della guida indiana ma una volta arrivato scopro che il mio aereo è stato dirottato a Bombay per maltempo(nebbia) obbligandomi a  ritornare in Italia con un giorno di ritardo. Quello che rimane è il ricordo di un viaggio straordinario che rimarrà stampato dentro me per sempre.

 

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