2013  NUOVA ZELANDA

La Terra di Mezzo

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Dubai - Burj Khalifa (828 metri) - Lavavetri

 

E’ stato il paese più remoto in cui mi sia mai recato ed anche quello che ho preparato in modo più minuzioso, cercando di sfruttare al massimo i dieci giorni a disposizione. Assistito da condizioni meteo quasi sempre adeguate ai differenti luoghi da visitare, ho portato a termine un itinerario che mi ha fatto conoscere i più importanti aspetti dell’isola del nord. Le 14 ore di luce giornaliere mi hanno permesso di coprire la maggior parte dei siti di rilievo turistico, concedendomi anche un notevole numero di esperienze balneari nelle innumerevoli, bellissime spiagge della Coromandel peninsula e del Northern settentrionale, ma non solo. Quattromila cinquecento chilometri percorsi in una sicurezza rassicurante di adeguate strade ben segnalate, attraverso paesaggi naturali dove sentivo il mio spirito volare via sopra campi sconfinati, vallate superbe, coste tormentate da mari burrascosi ed altre soavi di sabbia dalle varie tonalità. Siti geotermici che davano una perfetta idea di quanto potesse essere il pianeta durante la creazione, dove la tavolozza dei colori sembrava offrire tutte la gamma delle sfumature possibili. E la libertà, una sensazione che solo in questi luoghi si riesce a decriptare in modo compiuto e che ti fa urlare di piacere, tanto nessuno può sentirti, se non le miriade di uccelli che mi hanno accompagnato per tutto il tempo, in questo viaggio straordinario. Partito dalla Malpensa alle 21.30 con un volo Emirates, atterro a Dubai alle 6.00 del mattino seguente dopo 5.30 ore di volo. Io e Gosia c’eravamo già stati 25 anni fa, ma ora tutto è cambiato. La città è passata dai 400.000 abitanti di allora agli 1.600.000 attuali. Ho pochissimo tempo a disposizione, circa 1 ora e mezzo, ma non posso pensare di ripartire senza aver dato un occhiata al più alto grattacielo del mondo, il Burj Khalifa, in downtown, alto 828 metri. Con un taxi, in 20 minuti lo raggiungo, il sole sta cominciando ad avvolgere totalmente l’incredibile struttura, sono le 7.30. Resto affascinato dall’abbagliante bellezza di questo edificio unico. Aperto al pubblico nel gennaio del 2010, il prezzo per gli uffici aveva raggiunto i 43.000 US$ al metro quadro. La torre presenta una struttura composta da tre elementi, con un nucleo centrale. Sul Burj Khalifa sono presenti 27 terrazze che culminano con l'antenna, con una disposizione crescente atta a ricordare la forma di una spirale. Il 37° piano è occupato dall’hotel Armani, quelli dal 45º al 108º ospitano 700 appartamenti privati. Gli altri piani sono occupati da uffici, eccetto il 123º e il 124º, che ospitano un centro di osservazione, chiamato At the top. Il Burj Khalifa possiede il più veloce ascensore al mondo che si muove a 18 m/s (64,8 km/h). Si trova al centro di un vasto complesso che si sviluppa nel centro di Dubai, che comprende, tra gli altri, il 2° albergo più alto del mondo, il Burj al-Arab, la più grande marina artificiale del mondo, la Dubai Marina, le più grandi isole artificiali (le Palm Islands, le World Islands e il Dubai Waterfront) ed il più grande centro commerciale al mondo, il Dubai Mall. All'esterno, e con un costo di 217 milioni di dollari, sorge un sistema di fontane da record progettate dalla WET Design, la compagnia responsabile della costruzione della fontana dell'Hotel Bellagio di Las Vegas. Illuminate da 6.600 luci e 50 proiettori colorati, le fontane si estendono per 275 m e riescono a sparare verso il cielo getti d'acqua alti 150 m, accompagnati da musiche arabe classiche ed internazionali. Incantato da tutto ciò non m’ero nemmeno accorto della presenza di una decina di lavavetri all’esterno degli ultimi piani dell’edificio. Ritorno in aeroporto soddisfatto percorrendo la Sheik Zayed road, l’arteria più importante di Dubai, che corre fra una selva di grattacieli impressionanti e di quartieri che richiamano una visita, ma purtroppo non ne ho il tempo. Posso ammirare però con veloci colpi d’occhio ciò che mi circonda, realizzando immediatamente quanto la città sia cambiata in modo radicale. Riparto per Brisbane, dove atterro dopo tredici ore interminabili alle 6.50. Ultimo decollo alle 8.45 e, con altre 2.45 ore, atterro finalmente ad Auckland alle 14.35. Dopo una tratta così lunga mi sento come rintronato, ma devo riprendermi ora, perché tutto dipende da me. Il bagaglio arriva, come non ho problemi nel ritiro della Nissan Tiida prenotata dall’Italia. Via… adattandomi abbastanza in fretta nella guida a sinistra. Raggiungo la Road 1 che percorro verso sud sino ad uscire allo svincolo per la 2. Per questo pomeriggio non ho in programma granché, ma è comprensibile, solo raggiungere la destinazione che mi ero preposto, Coromandel town. Nei pressi di Waitakaruro però devio per la località di Miranda. La grande palude nelle vicinanze si dice sia ricca di uccelli acquatici e così percorro per alcuni chilometri la strada costiera cercando di avvistare qualche bell’esemplare. Già sono catapultato in un paesaggio naturale affascinante, il silenzio penetrante, le tossine del volo stanno già abbandonandomi. Proseguo per Thames entrando nella Coromandel penisola che si protende nel Pacifico a est di Auckland. Acquisto dell’acqua e percorro la strada costiera che si affaccia su piccole baie di ciottoli poco invitanti per esperienze balneari. Ecco Coromandel town, il centro più grande della penisola. Scelgo l’economico Tui lodge dove sistemo le mie cose e, risolto anche il problema della carta telefonica, m’accorgo d’essere ancora in forza, così decido di concedermi un ristorante. Opto per il più famoso della zona, il Pepper Tree dove gusto una specialità locale, le cozze, accompagnandole con un bicchiere di Oyster bay, un bianco di Marlborough, rinomata zona dei vini, a est di Wellington. Sigaretta contemplando il Coromandel harbour e poi torno al lodge cercando di mettere ben a fuoco il programma di domani. Venerdì mattina mi alzo prestissimo, alle 5.30 sono già in strada, percorrendo la costa occidentale della penisola verso nord ammirando per la prima volta  gli alberi di pohutukawa in piena fioritura. A Colville, un’isolata comunità rurale, la strada diventa sterrata. Devo prestare attenzione, talvolta le curve si aprono sulla costa rocciosa selvaggia sottostante, dove il mar di Tasmania si infrange fragoroso modellando le enormi rocce costiere. Alla mia destra si aprono prati infiniti che risalgono le colline dove pecore e vacche pascolano in libertà. Dopo Port Jackson, dove è presenta un campeggio di fronte ad una spiaggia di sabbia nera, giungo al termine della strada, a Fletcher bay, isolata, selvaggia, magnifica. Ritorno ora sui miei passi riguadagnando Coromandel e percorrendo la strada verso est ed il Pacifico. La prima sosta balneare, a Matarangi beach sarà abbastanza scioccante, l’acqua è molto fredda, ma in qualche modo dovevo rompere il ghiaccio. Quindi ancora più a est verso Kuaotunu dove una strada sterrata mi conduce prima a Otama beach e poi a Opito beach, entrambe splendide, che battezzo con un bagno questa volta più tollerabile, di fronte agli affascinanti isolotti della magnifica Mercury bay. Scendo quindi fino a Coroglen per risalire poi fino a Cooks beach dove è in svolgimento una festa di paese, la spiaggia è invasa da turisti perciò preferisco continuare fino al climax di Cathedral Cove a Hahei. Lascio l’auto al parcheggio e, dopo aver ammirato lo splendido panorama sulla baia e sulla sottostante Hahei beach, mi dirigo a piedi verso il sentiero che, in mezzora, mi porta all’incantevole luogo sopra citato, un famoso e gigantesco arco di roccia calcarea che separa due spiagge attigue. Il contesto paesaggistico è meraviglioso, la giornata di sole accentua l’incredibile gamma di colori del mare e delle rocce. Dopo la discesa e la successiva salita dal sito, credo di meritarmi una sosta balneare ad Hahei beach dove c’è molta gente ma in una splendida spiaggia di sabbia bianca. La giornata procede come da programma, ormai mi sono perfettamente ambientato e mi sento la Nuova Zelanda in mano. Prossima tappa è Hot Water beach, spiaggia adatta per i surfer che ammiro infatti nelle loro evoluzioni. Qui sono presenti delle acque termali proprio sotto la sabbia. Si dice che nelle due ore prima e dopo la bassa marea sia possibile, scavando una piccola buca nella sabbia, crearsi la propria  spa pool privata. Proseguo costeggiando il Pacifico sino alla cittadina costiera di Tairua, anche qui splendida spiaggia, ma adatta più ai surfer, come capiterà di notare sovente in tutta la North Island. Continuo andando a visitare la ridente località di Pauanui, invasa dagli abitanti di Auckland nei week end e quindi proseguo il mio itinerario toccando Opoutere beach dove, lasciata l’auto ad un parking, m’inoltro all’interno di un bosco che sbuca su una lunga spiaggia isolata. La giornata sta avviandosi alla conclusione, proseguo fino alle spiagge di Whangamata e Whiritoa deviando in seguito verso l’interno guidando in direzione di Waihi dove giungo intorno alle 18.00. Qui è presente una gigantesca miniera a cielo aperto, la Martha mine, la più ricca del paese, che regala oro e argento dal 1878. Percorro una parte della sua circonferenza colpito dalla profondità della stessa. Trovo alloggio al Westwind, gestito da una coppia socievole di vecchi viaggiatori incalliti. Il sole è ancora presente nel cielo, così decido di percorrere la strada fino a Paeroa. E’ considerato come uno dei più bei tratti del paese ed in effetti attraversa i bastioni orlati di bush del Karangahake gorge, dove si snodano diversi percorsi escursionistici. E’ stata una giornata lunga, piena, gratificante. Raggiunta Paeroa mi concedo una pizza e ritorno quindi a Waihi a riacquistare energia con una buona dormita. Il fuso non è riuscito per fortuna ad intaccare il mio fisico. L’indomani, sabato, alle 5.30 parto in direzione di Tauranga, nella Bay of Plenty, dove giungo alle 7.00. Città di 100.000 abitanti, ha un grande porto commerciale e uno turistico. Mi dirigo prima alla zona balneare di Ocean beach a Mt. Maunganui, battezzata con il nome della vasta collina che domina la penisola sabbiosa. La spiaggia di sabbia nera è lunghissima, vi passeggio per un po’ seguendo un curioso Oystercatcher alla ricerca di cibo. Che magnifica tranquillità! Riparto, dedicandomi ora alla zona storica dove ammiro dapprima, sotto una tettoia, la Te Awanui Waka, copia di una canoa maori e poi la bella Brain Watkins house, una casa coloniale costruita nel 1881 in legno di kauri, un albero dalla circonferenza incredibile presente in alcune zone dell’isola. Lascio Tauranga, direzione Rotorua, il più famoso sito turistico del paese. Sono talmente tante le attrattive che vi si trovano che ho necessariamente pensato di visitarne uno ora dopo aver studiato attentamente tutti gli orari di apertura e di chiusura dei siti geotermici presenti. Qui la vita quotidiana ruota intorno a fumanti sorgenti termali, geyser, ribollenti piscine di fango e gas sulfurei. Ed è anche luogo dove si può esplorare la cultura indigena, quella dei Maori che, a differenza di quanto accaduto in Australia con gli Aborigeni, qui mi pare di notare ben integrati, senza aver dimenticato la loro cultura, le loro tradizioni. Giuntovi, è mia intenzione visitare il celeberrimo sito di Te Puia. Grazie al depliant fornito in biglietteria il percorso da coprire è molto chiaro e permette di ammirare tutti i punti più interessanti come la Ngamokaiakoko mud pool, una pozza di fango gorgogliante tra le più belle che vedrò nella zona. Subito dopo, quella che è forse l’attrattiva principale, il Pohotu, un geyser che può eruttare fino a 20 volte al giorno lanciando un getto d’acqua bollente fino a 30 metri d’altezza. Ora è a riposo, ma il sito è affascinate da togliere il fiato, direi dantesco. Copro quindi l’intero percorso restando meravigliato dalle manifestazioni naturali che prorompono dal centro della Terra. Piscine di fango, esalazioni sulfuree e sorgenti calde all’interno di siti che, per la presenza di numerosi elementi, si colorano di una tavolozza infinita di colori. Ma colgo uno strano fermento nell’aria, il mio sesto senso mi dice che sta accadendo qualcosa e che altro se non l’eruzione del Pohotu! Corro letteralmente verso la zona del geyser e sarò ricompensato da una manifestazione naturale che colloco fra le più sensazionale mai ammirate in giro per il mondo. Sarò testimone di una scena straordinaria, ammirando il Pohutu che, pian piano si prepara al grande spettacolo. Il sito comincia ad animarsi di spruzzi sempre più alti fino ad esplodere con un geyser vero e proprio che noto evolvere fino ad altezze vertiginose. Resto a bocca aperto, estasiato, felice. Ora non mi resta che completare la visita con il Te Aronui, la casa delle riunioni del popolo maori, una costruzione finemente intagliata all’interno della quale venivano prese le decisioni più importanti. Bene, tutto sta procedendo per il meglio. Percorro il lato orientale del Rotorua lake imboccando poi la 30 per Whakatane, sono in anticipo sulla tabella di marcia e ne approfitto per visitare un secondo sito geotermico in zona: Hell’s Gate. Questo straordinario luogo si estende su una superficie di 10 ettari e da idea d’essere penetrati davvero all’interno dell’inferno. La leggiadria di un simpatico uccello autoctono, il Pied Stilt è subito sostituita dalle sinistre pozze di fango ribollente dell’Inferno pools e del Sodoma e Gomorra, un ambiente dominato da esalazioni sulfuree e dai fumi che si sprigionano dal terreno sotto il quale sgomitano forze primordiali. Sono presenti anche le Kahani falls, la più grande cascata termale calda dell’emisfero australe. Riprendo quindi la strada ammirando la serie di splendidi laghi che si susseguono dopo il Rotorua, come il Rotiti, dove resto incantato dalla grazia di alcuni splendidi Cigni neri e il Rotoma nel quale mi concedo un breve bagno. Giunto a Whakatane mi dirigo verso il Pa(vecchio luogo maori fortificato situato generalmente in cima ad un altura) locale da dove si gode un magnifico colpo d’occhio sulla cittadina sottostante che giace alla foce del fiume omonimo. La luminosa giornata di sole dona al mare dei riflessi strepitosi, specie quando lambisce le accattivanti lingue di sabbia bianca e, in lontananza, White island. E’ il momento di fare un po’ di vita balneare, così mi reco prima ad Ohope beach, dall’altra parte della collina e poi a Waiotahi beach. Ripartito, guadagno Opotiki da dove taglio la East Coast verso l’interno e Gisborne. La strada è immersa fra infinite distese di verde collinare sui cui fianchi pascolano migliaia e migliaia di capi di bestiame. Un percorso che termina nella città di Gisborne, orgogliosa di essere la prima città del pianeta a vedere il sole. Ne percorro l’arteria principale dedicandomi anche alla ricerca di un alloggio che, tuttavia, non trova consono al budget che mi ero ripromesso, così dopo una frugale cena, col sole che sta calando inesorabilmente all’orizzonte, decido di imboccare la 2 verso sud anticipando il proposito di domattina. Troverò uno spiazzo dove parcheggiare e dormire in auto, l’ho già fatto per due volte in Australia, non vedo perché non lo potrei fare qui, dato che ho anche con me il sacco a pelo. Superata egregiamente la nottata, riparto domenica mattina che non è ancora spuntata l’alba, alle 5.30, direzione Nuhaka sulla Hawke’s bay. Quindi devio a est verso Opoutama e la Mahia peninsula. E’ nuvoloso, il cielo plumbeo conferisce alle già selvagge colline sparse nella zona un atmosfera ancora più appartata, fuori dal mondo. Le distese di sabbia nera della costa, le enormi rocce e, in lontananza, le splendide scogliere bianche che ricordano quelle di Dover. Raggiungo la bella spiaggia a Mahia beach dove devio verso la selvaggia Oraka beach. Dopo l’abitato di Mahia mi dirigo verso la Maungawhio Lagoon, regno degli uccelli. Ci sono solo io e loro, in un ambiente naturale da far accapponare la pelle. Due cavalli in un campo mi si avvicinano, lasciandosi accarezzare. Forse è così che dovrà essere la pace, in Paradiso. Tornato a Nuhaka costeggio la Hawke’s bay fino a Napier passando dal Tutira lake e percorrendo un tratto del Pacifico di lunghe spiagge di sabbia nera. Transito in auto all’interno di downtown, ricche di edifici art déco ammirando le piacevole vie del centro, ricche di bei negozi. Entro nell’evangelica St. John’s church apprezzandone il piacevole altare in legno e costatando con mia massima sorpresa che la Messa che si sta celebrando è officiata da una donna prete. Mai visto in nessuna parte del mondo! Guidando lungo la caratteristica Marine Parade, un elegante viale alberato che costeggia il mare, salgo quindi verso il Bluff Hill lookout, un punto panoramico da cui si gode una bella vista sulla città e sulla Hawke’s Bay. Bene, è giunto il momento di ripartire, con l’intenzione di percorrere più chilometri possibili verso sud. Passo Hastings, a Waipawa mi concedo una sosta in un take away. Via di nuovo verso Masterton e, stanchissimo, giungo a Martinborough, graziosa cittadina con una bella piazza piena di verde. Questa è forse la zona vinicola più importante del paese, aziende si susseguono in continuazione con i loro pregiati vigneti. Non avendo trovato una sistemazione idonea qui, mi dirigo verso Lake Ferry che domina il lake Onoke. Qui sono davvero fuori dal mondo, un luogo selvaggio e ventoso, sede di un minuscolo abitato e di un hotel. Le spiagge sono di sabbia nera che gabbiani, sterne del Caspio e altri uccelli marini sorvolano facendosi trasportare dal vento. C’è un silenzio quasi tenebroso. Sarò fortunato dato che trovo alloggio in un camping dove sistemo le mie cose in un bungalow a prezzo modico. E, incredibilmente, ho anche il tempo per effettuare una parte del programma che avevo pensato per domattina. Guido costeggiando la costa battuta dal vento, accompagnato dal fragore delle onde che si infrangono sugli enormi scogli. Passato l’ultimo villaggio di pescatori di Ngawi, pieno di bulldozer arrugginiti sulla spiaggia, proseguo verso Cape Pallisser, ma da queste parti è segnalata una colonia di foche e faccio il possibile per identificarla. All’improvviso odo dei suoni, ora le vedo. Percorrendo un breve sterrato, e parcheggiato l’auto, mi dirigo verso le rocce dove le ho intraviste. E’ la più vasta zona di riproduzione di tutta la North Island. Mi avvicino con cautela, stando bene attento a non bloccare ad un eventuale maschio la via al mare e rischiare un suo attacco. Mi apposto a pochi metri da una madre col suo piccolo, altre sono nelle immediate vicinanze, sto fermo, quasi immobile ad osservarle. Sarò solo con loro per quasi mezzora, ammirandole nel loro ambiente naturale. Riparto e raggiungo il termine della strada, appunto a Cape Pallisser dove salgo, attraverso una scalinata infinita di 250 gradini, sino in cima al faro dove godo di una vista spettacolare della costa sottostante. Ritornato a Lake Ferry mi concedo la cena all’hotel omonimo con un fish and chips bagnato da una birra locale, una Ipa della Tui brewery. Stanco morto, dopo 770 chilometri, il sonno non tarderà a presentarsi donandomi il meritato riposo. L’indomani, lunedì, parto alle 5.30 per Martinborough dove gusterò un cappuccino sontuoso e quindi Featherston. Devo raggiungere Wellington, la capitale, prima possibile. La strada, che taglia una vallata verdissima, sale verso un passo in mezzo alla nebbia, ma quando ridiscendo si dirada lasciando il posto ad un sole che, prima titubante, poi spande ovunque i suoi piacevoli raggi. Una motorway mi fa avvicinare velocemente alla città, tristemente nota per i suoi venti tempestosi. Ma oggi si sta aprendo una giornata magnifica e Wellington, situata com’è sulle pendici dei colli che circondano un magnifico porto naturale, è pronta per accogliermi. Dapprima mi dirigo verso est, avventurandomi fino al Belvedere in cima al Mt. Victoria da cui si ammira il più bel panorama sulla città. Il sole è alle mie spalle e mi consente ottime foto sui grattacieli di downtown. Da qua sopra è come se dominassi tutta la capitale, scorgendo persino le lontane propaggini a sud che danno sullo stretto di Cook che i ferry devono navigare per trasportare merci e persone attraverso il Malborough Sounds fino a Picton, nel nord della South Island. Seconda tappa sono i Botanic Gardens che raggiungo attraverso una strada che sale verso un colle che da sul porto. Questo orto botanico collinare, che si estende su una superficie di 25 ettari  ospita un tratto di foresta endemica originale. Parcheggio l’auto e comincio ad esplorare i vari sentieri partendo dallo splendido roseto di Lady Norwood. Attraverso la foresta giungo al Carter Observatory e quindi alla stazione d’arrivo della Cable Car, la funicolare rossa che sferraglia lungo la ripida salita da Lambton Quay, la strada più alla moda della città. Tutto procede nel migliore dei modi, è ora di presentarmi allo Sheperds Arms hotel prenotato dall’Italia. E’ difficile trovare parcheggio e ho preferito trovare un alloggio che offrisse anche il parking ai suoi ospiti senza perdere tempo alla sua ricerca. Riparto a piedi dirigendomi verso il centro dove inizio le visite entrando nella cattedrale di Wellington, un edificio che non mi suscita nessun interesse. A tre navate, con un ampio presbiterio che presenta degli stalli lignei minimali, possiede delle vetrate istoriate moderniste donate da Elisabetta II. Più avanti, e di ben altra levatura è la Old St.Paul’s church. Da fuori pare nuova, ma l’interno, ad una sola navata, è in stile gotico inglese con magnifiche vetrate istoriate che mostrano la storia antica di Wellington. La sezione più affascinante, come sempre, quella del transetto. Ritorno sui miei passi verso la Parliamentary library vicino alla quale è la Parliament House. A fianco è il Beehive, una struttura modernista che assomiglia appunto ad un alveare e che è considerata come il simbolo architettonico della città. Da qui parte il Lambton Quay, chiamato anche Golden Mile per la quantità di negozi che vi sono. E’ il salotto buono della capitale ed è piacevole passeggiare fra altissimi palazzi e negozi affascinanti. Entro anche nell’elegante Kirkcaldie & Staine, l’unico grande magazzino della città, dove una pianista intrattiene gli ospiti con le sue aggraziate note. Entro quindi nella Shopping Arcade per poi raggiungere la Civic Square, ritrovo della cittadinanza, sede del teatro e della City Gallery. Una puntata nella famosa Cuba street, anch’essa ricca di negozi e quindi via verso il must: il Te Papa, il museo della Nuova Zelanda che offre  la storia e la cultura del paese in modo stimolante ed interattivo, mai visto niente di simile fra i musei. Vastissime collezioni dedicate alla cultura maori. Gli spazi espositivi sono di grande effetto con un approccio hi-tech. Fra le altre cose uno dei dieci cannoni della nave Endeavour, recuperato dopo che è stata per 200 anni sott’acqua. Non posso farmi mancare ovviamente le sale dedicate alla pittura dove resto piacevolmente sorpreso dalla presenza di alcune tele decisamente notevoli. Fra esse citerei: il medico di Gerard Dou, la Madonna col Bambino di Zanobi Macchiavelli, una fiera di villaggio di Pieter Brueghel il giovane, Mrs Devereux di John Singleton Copley e altri quadri di grandi come Hobbema e Albert Cuyp, Lorrain e Guido Reni. Soddisfatto della visita esco e passeggio ancora un po’ verso la stazione, e dopo una frugale cena in un fast food, torno in albergo. Martedì riparto alle 5.30 verso nord, lungo la Kapiti coast. Dopo la cittadina di Waikanae proseguo fino a deviare verso la spiaggia di Himatangi. Già guidando sulla statale mi rendo conto di avere difficoltà a tenere dritta l’auto dal gran vento presente, ma quando giungo al punto di accesso alla spiaggia e scendo per raggiungerla, mi è quasi impossibile farlo. Un vento impetuoso mi sospinge all’indietro e devo calzare gli occhiali per impedire alla sabbia di ferirli, devo procedere a 90 gradi e alla fine decido di tornare. Raggiunta la cittadina di Whanganui e percorse in auto alcune delle strade più interessanti, entro nel Riverboat centre dove ammiro, ancorato, il Waimarie, l’ultimo battello a ruota a solcare il fiume. Quindi mi reco al Durie Hill elevator che si prende dopo aver percorso una galleria che penetra per 200 metri nella collina e che poi consente, una volta raggiunta la cima, di ammirare il panorama dell’abitato tagliato dal Whanganui river. E’ nuvoloso oggi, ma d’altronde avevo letto che la zona era notoriamente piovosa. Il mio programma prevede di deviare verso la Whanganui river road, una strada che costeggia il fiume e che regala dei magnifici colpi d’occhio. Qui sono presenti alcuni minuscoli villaggi maori come Kirimiti dove c’è un marae (terreno sacro di fronte alla casa delle riunioni maori). Cerco di non disturbare con la mia presenza e getto un occhio all’interno di un dormitorio in legno. Che pace incantevole, solo io, loro e la natura. Proseguo entrando nel Kawana flour mills, un mulino restaurato del 1854 e quindi giungo al piccolo villaggio di Jerusalem dove entro nella St.Joseph’s church. Piacevole l’altare maori in legno intagliato e curioso il quadro che raffigura la Madonna con sembianze indigene, anche questo mai visto da nessuna parte, forse in Messico a Guadalupa. Al termine della Whanganui river road mi dirigo verso il Tongariro national park, uno dei tre siti patrimonio dell’umanità presenti nel paese. Sarebbe un must assoluto, ma non sarò fortunato. Le tre montagne del parco: il Ngarouhoe, il Ruapehu e il Tongariro non sono visibili a causa del brutto tempo. Decido comunque di percorrere tutte le strade che mi ero ripromesso e che avrebbero portato alle pendici delle montagne dai vari lati. Comincio con la Ohakune mountain road che parte dalla turistica cittadina omonima, e che si snoda per 17 chilometri fino al Turoa ski area dove parte uno skilift che nel periodo invernale porta gli sciatori alle pendici del Ruapehu. Durante l’ultima parte comincia a piovere e anche se la foresta che costeggia la strada è affascinante, mi sento defraudato di un piacere che avrei sperato di godere. Tornato indietro, riprovo salendo sul versante occidentale ma niente, sebbene prima di raggiungere attraverso la Top of the Bruce road il villaggio di Whakapapa abbia potuto percorrere un breve sentiero fino ad ammirare le belle Tawhai falls. Anche qui, man mano che si sale si mette a piovere e posso solo immaginare, ammirando la bassa vegetazione di montagna nei pressi di Iwikau village il paesaggio che mi avrebbe potuto offrire. Pazienza, non tutte le ciambelle riescono col buco! Ma mentre, un po’ deluso, sto avvicinandomi a Turangi, sul Lake Taupo ecco che compare attraverso le nuvole il Tongariro. Mi si offre per un una mezzora circa prima di scomparire nuovamente consentendomi di immortalare il suo cratere ancora fumante dopo l’eruzione avvenuta un mese fa e che mi aveva preoccupato sulla fattibilità dell’itinerario che mi ero costruito. Estasiato dalla vista di un Wood Pigeon su un ramo a due metri da me, riparto costeggiando tutta la riva orientale del Taupo, il più grande lago del paese che si trova nella caldera di un vulcano, ed arrivando a Taupo city, molto turistica e per questo cara negli alloggi. Non mi voglio far spolpare, così decido di tornare sui miei passi e trovare uno spiazzo per trascorrere la notte. Lo trovo e mi infilo nel sacco a pelo. Mi sveglio di notte e guardo in alto, fuori dal finestrino. Mai, neppure in Namibia avevo ammirato un così incredibile tetto di stelle. E’ come se miliardi di stelle si fossero unite in una nebulosa fitta di puntini luccicanti. Un esperienza da brivido. Il giorno seguente raggiungo nuovamente Taupo dove faccio colazione dirigendomi subito dopo al Taupo bungy, il sito di bungee jumping (sport nato in Nuova Zelanda) più popolare della North Island, affacciato sulla parete rocciosa che sovrasta l’imponente Waikato river. Proseguo verso le Huka falls, dove il fiume più lungo del paese, appena sgorgato dal lago, si getta fragorosamente in una stretta gola con un salto di 10 metri. Quindi, velocemente verso il sito geotermico di Orakei Korako, meno conosciuto di altri, ma forse il più bello del paese. Giungo nei pressi del lake Ohakuri dove parcheggio vicino all’entrata. Una barca mi porta sull’altro versante del lago dove ha inizio un percorso straordinario attraverso piscine di fango, distese dagli effetti multicolori come l’artist’s terrace, la raimbow terrace e la Ruatapo cave. Siamo solo in tre a visitare il luogo, straordinaria emozione! Riprendo la strada per il Lake Taupo entrando nel secondo sito del mio programma giornaliero: il Crater of the moon, con un percorso pianeggiante lungo il quale s’ammirano fumarole, alcune pozze di fango, per poi salire verso un punto di osservazione dal quale si può godere di una vista completa del luogo.  Il terzo sito sono le Wairakei Terrace una serie di terrazze artificiali di silice con piscine e geyser. Fra non molto aprono le Aratiatia Rapids e perciò corro verso una diga sul Waikato river in attesa che, a mezzogiorno in punto, gli sbarramenti vengano aperti e l’acqua scorra verso la gola sottostante. Percorso un breve sentiero mi apposto nel miglior belvedere per ammirare tutta la scena. La giornata prosegue perfetta ed ora è giunto il momento di partire, direzione Rotorua dove ho in testa di visitare altri bei siti. Risolvo per fortuna il problema alloggio fermando una stanza in un modesto albergo sulla strada e quindi proseguo per la Waimangu Volcanic valley  che si è formata durante l’eruzione del Mt.Taravera qui vicino nel 1886 e perciò considerato il sito geotermale più recente al mondo. Percorro il facile sentiero in discesa che mi porta prima al lago Smeraldo, chiamato così a causa di un enorme sviluppo di alghe e funghi, poi all’Echo crater nel quale s’è formato il Frying Pan lake, la più grande sorgente calda del mondo. Fonti e sorgenti d’acqua calda dappertutto, come nel ruscello che scorre lungo una parte del percorso che presenta tutta la tavolozza dei colori, dovuta a depositi che contengono tracce di antimonio, molibdeno, arsenico, tungsteno. Raggiungo quindi il cratere dell’Inferno lake, il gioiello fumante di Waimangu con i suoi depositi bianchi di silice. In fondo al tracciato prendo un pulmino che mi riporta all’ingresso. Che straordinario sito! Forse riesco a concedermi anche una visita al villaggio sepolto di Te Wairoa. Forzando un po’ l’andatura in auto e attraversando una ridente zona collinare impreziosita da due laghi contigui: il Blue lake e il Green Lake eccomi arrivato. Questo luogo è teatro di uno dei più drammatici eventi naturali che si siano verificati nel paese negli ultimi 150 anni: l’eruzione del Mt.Tarawera. Lungo il percorso si dovrebbero ammirare degli edifici sommersi dall’eruzione ma, in realtà c’è ben poco di interessante da vedere. Non ne è valsa la pena correre fin qui, anche se lw Wairere falls che si raggiungono attraverso un breve sentiero in discesa si offrono in un bel contesto forestale. Meglio tornare a Rotorua dove il 35% della popolazione è composto da maori. In alcuni punti della città sembra di stare in un calderone di uova marce dovuto alle esalazioni sulfuree che provengono dal lago, col suo vulcano spento nascosto sott’acqua. Guadagno subito la parte più interessante della cittadina: Ohinemutu, la zona maori, situata sulle rive del lago. La storica St.Faith’s church purtroppo è chiusa e così non posso ammirarne l’interno che dicono essere riccamente decorato da sculture maori e pannelli di legno. Di fronte alla chiesa c’è la Tama-tekapua Meeting house, la casa di riunione dei maori. Torno verso il War Memorial park nella vicinanze del quale c’è ancorato il Lakeland Queen, un piroscafo caratteristico che fa crociere sul lago. Sta atterrando anche uno degli elicotteri che porta i turisti ad ammirare dall’alto le zone geotermiche e ancora più a sud il Tongariro park. Termino la visita di Rotorua passeggiando attraverso i Government gardens dov’è anche il museo di arte e storia. E, per finire, una deliziosa cena all’Urban bistrot dove gusto un eccezionale filetto d’agnello accompagnato con un bicchiere di Russian Jack Pinot noir di Martinborough. L’indomani visito l’ultimo sito geotermico del mio programma, il Wai-O-Tapu con la sua Opal pool, l’inferno crater, la suggestiva Champagne pool, il Devil bath, la Sulphur cave e lo strepitoso spettacolo dell’eruzione del Lady Knox geyser. Bene, è ora di ripartire perchè il prossimo appuntamento sono le Waitomo caves dove giungo alle 13.30. Già prenotate dall’Italia per evitare brutte sorprese, sono delle grotte calcaree dalle curiose formazioni geologiche popolate da larve bioluminescenti: i glowworms. La prima visita guidata è alla Glowworm cave nella quale si attraversano  varie gallerie con stalattiti e stalagmiti fino ad una grande caverna chiamata la Cattedrale. Ma sono i glowworms la parte più interessante della visita. Sono le larve delle zanzare dei funghi, dotate di organi che producono una tenue luce verdina. Vivendo su una specie di amaca sospesa a un appiglio, le larve secernono un filamento appiccicoso che cattura gli insetti attratti dalla loro luce, cosicché ai glowworms non resta che recuperare i filamenti per avere un pasto assicurato. Dopo averli ammirati nel buio della caverna, si viene imbarcati su di una lunga canoa che scorre lungo il fiume sotterraneo. Nel buio più totale ci si rende conto di essere circondati da migliaia di lucine come in una sorta di Via Lattea: unico, straordinario. Dopo aver atteso all’esterno per una mezz’oretta ecco giungere il pulmino con la guida che ci porta all’altra grande attrazione del luogo: la Ruakuri cave. Vi si scende attraverso un lungo percorso a spirale che porta all’entrata della stessa. La visita si snoda lungo un percorso di un chilometro e comprende vaste caverne sotterranee, anche qui abitate dai glowworms, cascate, corsi d’acqua e forme calcaree delle più complesse. Dopo aver vissuto questa esperienza incredibile è giunta l’ora di ripartire, la strada è lunga dato che ho intenzione di andare più a nord possibile ma, giunto ad Auckland, riesco a trovare parcheggio ed alloggio all’hotel Kiwi gia prenotato per la mia ultima notte in New Zeland, perciò opto per restarci. Sono solo le 20.00 ed il sole è ancora presente perciò, sistemate le mie cose, scendo subito in strada a fare parte del percorso consigliato dalla mia guida. L’albergo è giù sulla via principale, in Queen street, perciò non devo percorrere molta strada per raggiungere prima l’Auckland town hall, elegante teatro in stile edoardiano e Aotea square nei pressi della quale è il Civic Theatre uno dei sette teatri d’atmosfera ancora presenti al mondo, splendido retaggio dell’epoca d’oro della settima arte. Svolto verso la Art Gallery dopodichè salgo all’Albert park che attraverso fino a giungere alla Clock tower, considerata il capolavoro architettonico della città, omaggio all’art nouveau. Puntata all’Old Government house e quindi ritorno verso il centro lungo il Chancery Precint, elegante quartiere pieno di negozi alla moda e la Vulcan Lane, la via dei pub. Tornato in Queen street raggiungo il porto. La sera è calata e posso ammirare i grattacieli di downtown illuminati dalla luce artificiale. Originale anche la struttura del Clouds, costruita in occasione della Rugby World cup 2011 e divenuta un simbolo della città. Risalgo attraverso una parallela della Queen, la Albert street, fino al vero simbolo cittadino, che si può ammirare da ogni punto della città: lo Sky Tower. Parte del grande complesso Sky City, che comprende casinò, ristoranti, caffetterie e un albergo, è un edificio alto 328 metri, il più alto dell’emisfero australe. Prendo l’ascensore che mi porta in 40 secondi alla terrazza panoramica, mentre guardo in basso attraverso il pannello in vetro del pavimento della cabina. Il panorama è mozzafiato, da qua sopra si domina tutta la baia di Auckland. Salgo ancora con un secondo ascensore fino allo Sky Deck a 220 metri. Che degna conclusione di giornata! Non mi resta che tornare ora in albergo. Da domani, venerdì, inizia l’esplorazione del Northland con le sue splendide spiagge.  Parto come al solito alle 5.30 percorrendo la 1 fino a Mangawhai dove arrivo alle 7.40. Situata al centro di una baia a forma di cavallo vi ammiro le evoluzioni di alcuni surfer. Più avanti, primo bagno a Langs beach, deserta, tutta per me, magico. Altra esperienza balneare alla successiva Waipu Cove. La temperatura dell’acqua è accettabile e il sole gia alto nel cielo mi anticipa una giornata fantastica. Proseguo fino a Whangarei, una cittadina che attraverso senza indugio dirigendomi alle vicine Whangarei falls. Parcheggio e percorro un breve sentiero che conduce ad uno specchio d’acqua pittoresco che fronteggia lo spettacolo delle cascate, le più fotografate del paese. Ma non mi basta, sono solo di fronte a questo spettacolo, non posso farmi sfuggire la straordinaria esperienza che ho in mente di fare. Entro in acqua e nuoto contro la forte corrente che mi spinge indietro fino a raggiungere il fronte delle cascate. Il getto è potentissimo. E alquanto pericoloso, ma alla fine riesco ad entrare sotto le prime propaggini. Da brivido assoluto! Guadagno la riva restando ancora un po’ ad ammirare lo spettacolo e poi ritorno all’auto partendo alla volta della straordinaria Matapouri beach, una spiaggia incantevole impreziosita a nord da una serie di grandi rocce vulcaniche, come alle Seychelles. Vi resto una mezz’oretta accarezzato dalle sue acque calme ed invitanti. Da qui parte un ardito sentiero in salita che percorro e che oltrepassa una bassa collina raggiungendo l’altro lato del piccolo promontorio che da sul lato roccioso battuto dalle onde. Ma all’interno si è generata una profonda pozza naturale scavata nella roccia che le maree riempiono di acqua cristallina. Che bella esperienza immergercisi dentro! Tornato sulla spiaggia, un altro bagno e poi via, felice, verso la stupenda Wolleys beach dove faccio un altro bagno come alla successiva ed altrettanto affascinante Sandy beach. Sono deliziato, come in estasi da tanta bellezza. Godere di questi luoghi in totale libertà è qualcosa che quasi mi fa urlare dalla gioia. E’ ora di ripartire. Voglio percorrere un bel po’ di strada fino a giungere nella magnifica Doubtless bay dove mi concedo un'altra pausa balneare nella bella Coopers beach, incorniciata da un arco di caratteristici alberi Pohutukawa con i loro sgargianti fiori rossi. Altra sosta alla successiva Cable bay beach per poi entrare nella Karikari peninsula, con spiagge rivolte verso ognuno dei quattro punti cardinali. E che spiagge! A Tokerau beach che costituisce il margine occidentale della Doubtless bay i miei occhi sono some incollati lunga la lunghissima, straordinaria spiaggia dove faccio un altro sontuoso bagno. Ma l’apoteosi della giornata l’avrò dopo un breve percorso in sterrato che mi porta di fronte ad una costa mozzafiato. Un breve sentiero sulle dune mi porta alla Karikari beach, una spiaggia di chilometri e chilometri di straripante bellezza selvaggia. Sono solo, ancora una volta, e mi sembra di essere il re del mondo. Mi sdraio sulla soffice sabbia a contemplare questa bellezza mozzafiato, da delirio. Bagno principesco per poi tornare. Ancora un ultimo bagno nella spiaggia di Whatuwhiwhi e quindi ritorno all’ingresso di questa penisola dove avevo chiesto per un alloggio. Solitario ed economico sistemo le mie cose in questo Rockhouse e poi scendo in auto un po’ a sud dove gusto una pizza nel villaggio più vicino. L’indomani, solita partenza alle 5.30 e, dopo un percorso lunghissimo di 130 chilometri, durante il quale avevo sinceramente disperato che il tempo potesse aprirsi al meglio, giungo al selvaggio Cape Reinga dove i maori credono che le anime spicchino il volo per raggiungere la loro patria spirituale. Sono arrivato nell’estremità settentrionale della Nuova Zelanda. Raggiungo il faro di Cape Reinga dove sembra di trovarsi ai margini del mondo. E’ qui che le onde del Mar di Tasmania e dell’Oceano Pacifico si frangono impetuose le une sulle altre arrivando a produrre cavalloni che, in caso di tempesta, possono raggiungere anche i 10 metri. Il sole si fa largo fra la nebbia che avvolge il Capo e mi preannuncia un altra possibile giornata di delizie. Il Northland settentrionale è famoso per le sue spiagge e non voglio farmene mancare nessuna. Comincio a deviare a est dalla statale per visitare la prima, a Tapotupotu bay. E’ ancora presto per bagnarsi, ma lo farò alla successiva deviazione di 15 km in sterrato che mi porta nell’affascinate Spirits bay, sede di un campeggio per turisti. Ridiscendendo verso sud all’altezza di Te Kao, sosto al tempio di Ratana, nome di una setta cristiana maori che conta più di 50.000 adepti e fondata appunto da Wiremu Ratana. Qualche chilometro più avanti devio nuovamente verso la costa fino alla incredibile Rarawa beach nella Great Exibition bay. Ormai non ho più aggettivi nel vocabolario per descrivere questi luoghi dove davvero senti il tuo spirito che s’alza nettamente da terra. Siamo in quattro a deliziarci in acqua con quattro chilometri di spiaggia. Incredibile!. E che dire della successiva deviazione fino ad Anderson bay? Si dovrebbe ringraziare il destino che ha consentito ammirassi spettacoli del genere. Altro bagno sontuoso e poi riparto nuovamente. Dopo poco decido di deviare questa volta ad est per ammirare la Ninety mila beach, una lunghissima spiaggia battuta dai venti dimora di dune ed uccelli marini. Mentre mangio un panino noto alcuni fuoristrada che percorrono la battigia, attività possibile solo con la bassa marea. Non sono infrequenti infatti impantanamenti di alcuni azzardati amanti del fuori pista. Dopo una rapida visita a Houhora Harbour decido che è ora di tornare. La strada è lunga fino ad Auckland e ed è meglio non lasciarsi tentare da altre deviazioni. Ma ad Uretiti beach non resisto e mi concede l’ultimo, indimenticabile bagno in questa lunghissima spiaggia. Riparto fra percorsi immersi in colline, vaste distese di prati, nei pressi di una zona particolarmente alberata scorgo decine di pappagallini verdi svolazzanti sulle fronde. Magico, davvero. Nei pressi di Auckland decido di percorrere la litoranea invece della motorway e questo mi permetterà di ammirare altri paesaggi piacevoli come, dall’alto di un belvedere, la bella spiaggia di Orewa. Giungo in città alle 19.30, giusto in tempo per concedermi una superba cena al Tony’s, nei pressi della mia Queen street. Una coscia di cervo con verdure di stagione e un bicchiere di rosso TeKairanga pinot noir di Martinborough. Domani, domenica ed ultimo giorno di viaggio. Sembra impossibile essere riuscito a completare un programma così impegnativo, ma ce l’ho fatta. Alle 7.00 ripercorro lo stesso giro che feci al mio arrivo di sera due giorni fa per immortalare con la luce del sole gli edifici che meritano di esserlo. Giunto in Albert street completo la visita con la St. Patrick Cathedral dove si sta celebrando la Messa. Edificio tra i più belli della città, presenta della belle vetrate, policrome nel transetto ed istoriate nella navata ed il presbiterio, dove è presente stranamente l’acquasantiera. Nuova salita in cima allo Sky Tower per ammirare il paesaggio di giorno. Superbo! Avrei voluto provare l’esperienza dello Sky Walk, una passeggiata a 192 metri di altezza su una passerella all’aperto larga un metro, senza ringhiera o balaustra, naturalmente imbracato, ma non me la sono sentita.  Non ho più il fegato di quando, da giovane ho provato tre lanci col paracadute da mille metri. Ora mi basta vedere il pazzo sottostante che si sta gettando nel vuoto con una corda elastica nell’altra attività estrema dello Sky Jump per perdere tutta la baldanza. Completo la visita della città recandomi prima all’Auckland domain, che con i suoi 80 ettari di superficie ospita campi sportivi, l’Auckland museum, giardini, uno splendido spazio verde per i cittadini. Mi spingo poi fino al quartiere di Parnell dove entro nella Holy Trinity cathedral che, sebbene all’esterno non la si degni di nota, dentro invece offre nelle controfacciata delle bellissime vetrate moderniste. A fianco c’è la St.Mary che dicono più bella, ma ora è chiusa. Bene! Pranzo con una pizza in uno dei molti ristoranti e locali italiani della zona, per poi completare il mio tour recandomi a Mt.Eden il cono vulcanico più alto della città. Auckland è una zona calda che galleggia su un serbatoio di magma situato a 100 chilometri di profondità e in attesa del momento buono per sgorgare. E circondata da vulcani, alcuni di forma conica, altri pieni d’acqua. Questo dove mi trovo ora è profondo 50 metri. Dal belvedere della cima si gode di un panorama bellissimo su tutta la città. Dopo più di 4.500 chilometri, un montagna di esperienze entusiasmanti, il viaggio è terminato. Non mi resta che consegnare l’auto al rent a car ed attendere il volo Emirates delle 19.15 per Melbourne dove ho intenzione, per via di una sosta di sei ore di visitare il centro cittadino. Atterro alle 21.20, in leggero ritardo, ma scopro poi che il successivo volo per Dubai è stato anticipato, impedendomi questa ulteriore esperienza. Ma non sarà un danno, anzi. Infatti, quando dopo un volo lunghissimo di altre 12 ore atterro nella celebre località degli Emirati Arabi ho tre ore per visitare parte della città, oltretutto col sole ben alto nel cielo. Con la metropolitana che parte dall’aeroporto scendo a Nakhell. Qui sono nella zona di Dubai marina, un impressionante quartiere dove fino a pochi anni fa non c’era nulla, ora invece sono presenti una selva di grattacieli dal design futuristico, negozi, locali, divertimenti, una spiaggia caraibica infinita, trasformazione che sta a testimoniare l'incredibile miracolo di Dubai. La vivace passeggiata lungomare, chiamata The Walk, con enormi marciapiedi pedonali ed un'infinità di ristoranti e bar. Alle spalle, la vera e propria Marina, con altissimi grattacieli che si specchiano nelle acque del porto. Qui ora vivono oltre 100.000 persone. La spiaggia che si affaccia sulla Marina di Dubai è strepitosa: un'infinita striscia di sabbia bianchissima, bagnata da un mare turchese, con lo splendido skyline dei luccicanti grattacieli, i lussuosi resort tra i quali l'Hilton, lo Sheraton e l'Oasis Beach Tower. Ammiro il 23 Marina di 395 metri, il Pricess tower di 414 metri, l’Elite tower di 381 metri, il Marina Torch di 345 metri, l’Infinity tower di  330 metri, l'Al Seef tower 215, ma ce ne sono così tanti che bisognerebbe avere due ore solo per riconoscerli tutti. Voglio recarmi ora a Palm Jumeirah, ma è impossibile a piedi, è troppo lontano, così mi ci faccio portare in taxi. Attualmente è la più grande isola artificiale al mondo. Vista dall'alto Palm Jumeirah somiglia ad una palma stilizzata (da qui il suo nome Palm) costituita da un tronco centrale e da 17 rami. Il tutto circondato da una serie di isole che formano una corona circolare. L'isola è stata costruita completamente con materiale naturale; 94 milioni di metri cubi di sabbia e 7 milioni di tonnellate di roccia. Ammiro lo stupendo Atlantis hotel e poi proseguo le mie visite. Nel quartiere di Jumeirah lake il taxista mi fa notare il disastro provocato da un immane incendio che un mese fa ha avvolto uno dei tanti grattacieli. Quindi andiamo alla Vela, un albergo lussuosissimo, considerato il primo albergo a sette stelle del mondo. Con i suoi 321 metri di altezza è inoltre la seconda più alta costruzione al mondo completamente dedicata ad hotel. Qui si può scegliere di cenare nel ristorante sottomarino, circondati da acqua e pesci, o fare un giro al Wild Wadi Park. Edificio unico nel suo genere qui si può arrivare a spendere 9000 dollari a notte. Per finire mi faccio portare ancora nei pressi del Burj Khalifa che voglio ammirare con tutta calma da vari punti di osservazione. Su questo altissimo edificio ho notizie contrastanti. Sembra che la torre dei record, espressione dell’orgoglio dell’emiro Al-Maktoum, è oggi la metafora della città-stato, concentrato di record negativi che hanno trasformato la gazzella del Golfo in un lento e frastornato bradipo. Il grattacielo oggi si vende a prezzi da saldo. Il valore degli appartamenti è crollato della metà, gli affitti del 40 per cento. Un’abitazione di una stanza e 80 metri quadri è passata di mano a 5.600 euro al metro quadro, bruscolini rispetto alle quotazioni di un appartamento nel centro di Milano o di Roma. Bisogna salire al 124° piano del Burj Dubai per percepire il vero volto dell’emirato: pochi attimi di ascensore verso il punto panoramico più alto del mondo. In tutta la città ci sono scheletri di cemento abbandonati. Progetti faraonici sono stati lasciati come Palm Deira e The World, arcipelago di 300 isolette che avrebbero riprodotto i cinque continenti del globo. Per ogni cento progetti immobiliari registrati nel 2008, quasi 70 sono stati annientati con un tratto di penna. I soldi non ci sono. Il debito di 109 miliardi di dollari accumulato dal governo di Dubai e dalle sue società controllate per realizzare sogni faraonici ha già mietuto le sue vittime. Prima di riprendere la metro verso l’aeroporto voglio gettare un occhio però sul Mall, il più grande centro commerciale del mondo con 1.200 negozi, un teatro e un cinema con 14 sale. Al suo interno, in una vasca considerata l'acquario più grande del mondo (32 metri di lunghezza e 8 di altezza), nuotano tonni, razze e squali. La visita di Dubai è stata gratificante ed ora non mi resta che attendere il volo dell’Emirates verso Milano Malpensa. E’ stato un viaggio entusiasmante, unico, ricco, intenso, un autentica perla che brilla nella mia personale collezione di viaggi in giro per il mondo.

 

 

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