2000 Tanzania

Trekking sul Kilimanjaro dalla Machame route (5.895 metri)

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1a tappa - percorso nella foresta

Dopo la bellezza di otto anni dal mitico trekking in Nepal sul Kala Pattar a 5.575 metri di fronte al più bel panorama di montagne del mondo ho deciso di mettere ancora in discussione il mio fisico tentando quello che  molti trekkinisti  considerano il sogno di tutta una vita: il trekking sul Kilimanjaro. Questa poi la ritengo solo una tappa intermedia che in caso di riscontro positivo mi porterà ad organizzare a breve il trekking dei trekking sulla mitica cima dell’Aconcagua sulle Ande argentine(6.892 metri). Grazie alla precedente esperienza nepalese questa volta ho voluto preparare il viaggio di tutto punto dedicando alla preparazione fisica notevole attenzione fino a raggiungere una forma davvero invidiabile. Parto con un volo dell’Ethiopian con scalo ad Addis Ababa fino al Kilimanjaro airport nei pressi della cittadina di Arusha in Tanzania. Breve incontro con la mia guida Clemence che mi accompagnerà in questa fantastica avventura e dopo una ottima cena a base di filetto e birra Tusker preparo tutto l’armamentario per la mattina seguente, primo giorno di trekking. Pensare che ieri ero a Pietra Ligure al mare!. Si parte alle 9.00 con un pulmino per il Machame gate a 1.800 metri. Per salire in vetta sono due le piste: la Marangu route più facile e meno panoramica e la Machame route più difficile ma più bella. Io ho scelta la seconda e dopo la registrazione al gate si parte. Con me ci sono Clemence e ben tre portatori(dovevano essere due!). Si comincia a salire attraverso un sentiero talvolta molto scivoloso immerso nella foresta che circonda completamente il Kilimanjaro fino all’altezza di 3.000 metri. Buona parte della pioggia che cade sulla foresta viene assorbita dal fitto terreno di foglie e attraverso il suolo e le rocce di lava porosa emerge come sorgente più a valle. E’ un ambiente molto umido ma spettacolare. Specie all’inizio sono frequenti i tratti in cui si potrebbe accelerare il passo ma è bene non farlo e mantenere sempre un andatura moderata. Questo è solo uno scherzo a paragone di quello che mi aspetta ed infatti dopo qualche ora il sentiero diviene più stretto e sconnesso salendo molto velocemente. Cerco di controllare al meglio la respirazione spezzando il meno possibile il mio ritmo. Saranno sei ore molto dure che ci porteranno ai 3.000 metri del Machame camp ma finora ho condotto il trek da manuale evitando accuratamente di parlare e sprecare risorse preziose. Montata la tenda i miei portatori mi preparano uno stufato con pezzi di pecora e verdure. Da qui già si può ammirare la vetta e l’adrenalina sale ma durante la notte non riuscirò a riposare bene a causa di un mal di collo pauroso quindi la mattina seguente mi sentirò alquanto debilitato ma ugualmente pronto a partire prima degli altri per evitare ressa sull’unico sentiero. Il paesaggio è affascinante ed a perdita d’occhio siamo letteralmente circondati giù in basso dalle nuvole. Saliamo lungo un percorso che diventa sempre più arido e pietroso lasciando a solo qualche lobelia e vegetazione arbustiva il compito di impreziosire il colpo d’occhio generale. Il Kilimanjaro è la più alta vetta africana ed è composto da 3 vulcani spenti: il Kibo(5.895m.), il Mawenzi(5.149m.) e lo Shira( 3.962 m.).I loro coni si formarono in migliaia di anni raggiungendo un altezza di circa 5.000 metri dopodiché lo Shira sprofondò formando una caldera mentre le lave degli altri due continuarono a salire. Il Mawenzi quindi si estinse e il Kibo raggiunta l’altezza di 5.900 metri fermò anch’esso la sua attività abbassandosi in seguito fino all’altezza attuale(5.895 m.). Il trekking prosegue abbastanza duramente con molti scorci sull’altopiano della Shira e termina dopo ben 5 ore e 30 di tappa alla Shira hut(3.840 m.). La temperatura è gradevole (25°C.) a paragone dei 3°C di stamattina alle 5.00. Dopo cena sistemo per bene lo zaino in vista della dura giornata di domani. Siamo alla terza tappa e dopo una frugale colazione, come al solito sono uno dei primi a partire. La salita è graduale, immersi nella brughiera fino a raggiungere lo Shira plateau. Da qui si ha una bella visione della caldera e della vetta del Kibo. Nei pressi del sito chiamato”Lava tower” da dove le spedizioni alpinistiche vanno su per la direttissima l’altimetro segna 4.300 metri. Dinnanzi a noi c’è ora un percorso in discesa lungo una valle che pare “incantata”. La vegetazione qui si è sbizzarrita creando forme uniche ed inimitabili. Lobelie e seneci giganti è come se fossero stati sparsi dall’alto da un misterioso seminatore. I seneci poi hanno alti fusti che servono da serbatoi d’acqua e le foglie in cima sono raccolte a forma di cavolo. Questo protegge la pianta dalle basse temperature in modo che il germoglio non abbia a danneggiarsi. Si scende quasi protagonisti all’interno di un ambiente da fiaba fino al Barranco Hut a 3.800 metri. E’ in questo pianoro che monteremo le tende. Non posso fare a meno di notare quanto i vari trekkinisti ora abbiano smesso di parlare durante la marcia ma siano tutti quanti concentrati verso la meta finale che ora si fa sempre più vicina. Anche la fatica e l’altitudine hanno spezzato le gambe ed il fisico di molti infatti quest’oggi mi è capitato un paio di volte di incrociare persone che tornassero indietro barcollanti con sguardi stralunati. Credo fosse stato l’effetto dello sforzo ad alta quota il motivo del loro forfait. Mentre consumo la cena non posso fare a meno di guardare la parete che abbiamo di fronte, quasi in verticale dove appena mi sembra di riconoscere una striscia di sentiero. Domattina è da li che dovremo salire ma al momento non capisco come si possa farlo e sono molto preoccupato. Mi conforta però il mio stato fisico dato che finora tutto è stato gestito alla perfezione e non ho mai patito alcun problema oltre al mio cronico mal di collo dovuto alla cervicale. E’ vero anche però che il bello deve ancora venire perciò sarebbe meglio non illudersi e mantenere la concentrazione alta. La notte trascorre velocemente e lascia il passo in fretta al sorgere del sole. Verso le 7.30 si raggiunge la base della tanto temuta parete che alla fine si rivelerà molto faticosa ma assolutamente gestibile. Lo spettacolo sono gli strapiombi da paura sul pianoro sottostante. Un errore qui(anche se improbabile) sarebbe fatale. Talvolta mi fermerò per ammirare la marcia dei portatori lungo questa ripidissima e sconnessa salita. Come riescano a procedere con quegli incredibili pesi sulle spalle è cosa che non riuscirò mai a spiegarmi. Chissà cosa penseranno di noi occidentali vestiti di tutto punto mentre loro saltano con 20 kg. sulle spalle da un masso sull’altro con i sandali!. Finalmente ha fine questa dura ascesa e lascia spazio ad un sentiero in saliscendi armonioso e senza problemi fino alla discesa verso la Karangu valley. Spettacolare il panorama fra una vegetazione aspra, umida. Rivoli d’acqua scendono da più punti in cavità che non ricevono probabilmente mai il sole ed è per questo motivo che stalattiti emergono in bella mostra qua e là. Giù in basso c’è un ruscello in riva al quale molti gruppi di trekkers stanno pranzando ma io decido di proseguire e fermarmi più tardi dopo l’incredibile ascesa che parte non molto distante da qui. Sarà durissima e con pendenze pazzesche del 50-60% ed è qui che mi rendo conto che posso farcela. Calmo, tecnicamente perfetto ascolto ogni mio respiro, ogni mio muscolo modificando la frequenza dei passi ad ogni mutato ritmo di inspirazione ed espirazione. A mezzogiorno sosta a 3.870 metri per consumare un frugale pasto seduto su un grosso sasso. A livello psicologico un percorso del genere è massacrante perché sali per poi ridiscendere ritornando alla medesima altitudine di prima mentre sei ben consapevole che comunque dovrai ancora salire e sempre di più. Proseguendo chiedo a Clemence come procede la tappa e la fine sembra ancora maledettamente lontana anche se ora ho almeno le coordinate del possibile campo. Dovremo scendere lungo un piccolo sentiero sabbioso-pietroso per poi risalire dall’altro lato e già solo questo stroncherebbe bellamente se non fosse che poi bisogna salire, salire ed ancora salire lungo una direttrice molto irregolare fra massi  più o meno grandi sparsi dappertutto. La salita è ripidissima e ora sono veramente cotto dalla fatica anche se il passo è sempre costante ma devo impiegare il doppio della tenacia per mantenerlo. Non finisce più e il piede d’appoggio arretra scivolando sulla ghiaia acuendo la fatica. Il Kilimanjaro è li di fronte che pare guardarci ma è lontano, ancora maledettamente lontano. Alle 16.00 arrivo al Barafu camp e stramazzo seppure con decoro al suolo. I portatori, che sono partiti dopo di noi sono nel frattempo già arrivati montando le tende. Incredibile! La giornata è stata terribilmente faticosa con 8.30 di trekking e tutti noi (quelli arrivati fin quassù a 4.550 metri) abbiamo l’adrenalina a mille in attesa di stanotte. Si proprio questa notte, dato che il programma di ascesa prevede la partenza alle 24.00(mezzanotte). Lo scopo è quello di arrivare in cima all’Uhruru peak (5.895 metri) quando il sole sorge per godere dello splendido paesaggio. Dal punto di vista fisico la giornata di domani sarà devastante dovendo partire senza nemmeno riposare dopo una sfacchinata come quella odierna. Nonostante infatti molti dei trekkinisti fossero al campo già  alle 16.00 -17.00 risulta pressoché impossibile dormire un po’ per via della tensione che risulta palpabile in tutti noi. Si deve sistemare poi lo zaino in modo da caricare solo ciò che è necessario e essere certi di non dimenticare nulla. Si va quasi a 6.000 metri e non è uno scherzo. L’adrenalina impedisce il riposo essendo ad un passo da una piccola gloria, soddisfazione che si porterà gelosamente per il resto della vita nello scrigno misterioso della propria memoria. Si pensa a mille cose per non compromettere con una stupidaggine tutta la fatica fatta fin qui. Come sarà poi l’ascesa di notte?. Dicono che sarà necessaria una torcia per illuminare il percorso. Vedremo! Dopo la cena consumata alla 20.00 un mio portatore mi porta la “colazione” alle 23.15. Chiedo a Clemence di partire per primi dato che con l’oscurità sarebbe meglio non intralciarsi a vicenda procedendo in modo più uniforme. Condivide e dopo poco si parte anche se dall’altro lato del campo un altro gruppo di 4-5 persone ha la stessa idea e ci precede a passo molto lento. E’ meglio non esagerare e stare dietro. Un altro gruppo che procede più lesto ci sorpassa tutti approfittando di uno slargo nel sentiero. Anche io e Clemence optiamo per stare dietro a loro che ci sembrano andare ad un passo meno” imbarazzante”. E’ durissima e sempre in salita, senza scampo. Il gruppetto di testa si ferma per tirare il fiato ma io voglio proseguire senza interrompere il mio ritmo calmo e cadenzato sempre in scia a Clemence. La salita sta diventando sempre più dura senza alcun zig zag per poter respirare. E’ da tempo ormai che si sale su sabbia-pietrisco ad una pendenza pazzesca con il piede d’appoggio che scivola sempre imponendo uno sforzo maggiore del dovuto. Non ricordo di aver mai fatto una  fatica così allucinante e continuata nemmeno nella terribile tappa finale del Kala Pattar in Nepal. Alcuni ci passano per poi fermarsi e ripartire. Ci sono delle impennate di 100 metri per volta che tolgono il fiato e non finiscono mai ripetendosi proprio quando la precedente stava concludendosi. E’ incredibile lo sforzo che si sta facendo ed ogni trekkinista sale in un silenzio quasi religioso, intimo, con se stesso. Si ascoltano solo i respiri di quelli che ti passano e gli ansimi di quelli che si sono fermati un attimo a tirare il fiato. In lontananza si vede la cima del Mawenzi( 4.958 metri) e sembra essere sotto di noi. La salita non finisce più anche se le forze residue sono ancora ben nascoste nel mio sacco vitale. Finora non ho sbagliato niente, nemmeno un respiro, semplicemente perfetto. La luce sta alzandosi  e lo Stella Point, l’incrocio fra la Marangu e la Machame route è di fronte a noi. Praticamente è fatta! C’è una grossa roccia dove mi apposto per filmare  i magici effetti del sole sorgente sui ghiacci della cima ma Clemence mi chiede di ripartire dato che non siamo ancora arrivati al top. Il sentiero prosegue ormai in falsopiano perciò non dovrebbe essere faticoso ma chissà perché il mio corpo ha deciso che era finita e non è più disposto a salire oltre. Per raggiungere i cartelli della vetta mi trascinerò letteralmente facendo sforzi sovrumani e attingendo ampiamente alla riserva di forze prima descritte. Sono davvero alla frutta ma questo non mi impedisce di ammirare le straordinarie formazioni di ghiaccio dai molti colori. Appongo la firma  sul librone attestante che anch’io come tanti altri oggi ho raggiunto la vetta del tetto d’Africa:il Kilimanjaro. Una sosta di circa 10 minuti prima di ripartire. Si, perché dopo uno sconquasso fisico di questo livello ora è in programma la discesa che sarà altrettanto devastante. Si ridiscende infatti lungo lo stesso sentiero dell’andata che aveva più o meno una pendenza del 50% ed il ritmo di Clemence è da discesa libera. Quasi è come sciare sulla sabbia con le antenne sempre alzate per non rischiare distorsioni alle caviglie che a queste altezze sarebbero da delirio. Si pattina letteralmente macinando chilometri su chilometri. Dopo sette ore di marcia in salita ci impiegheremo solo un ora e trenta per ritornare al Barafu camp. Sul sentiero del ritorno vedrò quattro persone ritornare al campo mesti e barcollanti in preda sembra a problemi cerebrali tanto hanno delle espressioni inebetite. Non è umano prodursi in tour de force così pazzeschi.  Raggiungo la mia tenda felice per aver portato a termine questa incredibile tappa e l’ultima stilla di energia la impiego per sedermi composto. Dopo un attimo entro in tenda, mi sdraio vestito e crollo, secco,  in un attimo dormendo per circa ¾ d’ora fino a che un portatore mi porge il pranzo. Mai avrei immaginato di dover ancora percorrere decine di chilometri fino al Mweka camp a 3.100 metri. In pratica quest’oggi percorrerò 4.100 metri di dislivello. Il cibo non fa nemmeno in tempo ad iniziare il suo ciclo digestivo che si riparte. Colui che ha partorito l’organizzazione di questo trekking dovrebbe crepitare tra i fuochi ardenti ma la parte più faticosa è passata e sono riuscito a conseguire lo scopo che mi ero prefisso perciò ora la strada è in discesa in tutti i sensi. Si tratta di stringere i denti ancora un po’ ma sinceramente mai avrei immaginato di camminare ad una andatura anche sostenuta per altre 4 ore. In totale, arrivato al campo saranno 11.30 di trekking mostruoso e quando entro in tenda e tolgo gli scarponi mi pare di rinascere. Questo è un campo abbastanza organizzato e per la prima volta si riesce a consumare un pasto come Dio comanda. Domani ritorneremo al Machame gate e a livello psicologico questo lo considero quasi come un dettaglio di minima importanza. Sveglia alle 5.30 e alle 7.00 ripartiamo raggiungendo in un attimo il limite della foresta dove è quasi sempre presente una pioggerella che non da certo fastidio alla persona ma che crea un assoluto impedimento alla marcia. Il sentiero è infatti un pantano totale e risulta una vera impresa restare in piedi. Oltretutto la sua conformazione è sconnessa con buche(meglio voragini), sassi, pozzanghere e rami ovunque. Saranno tre ore e mezza da tregenda con pericoli di caduta praticamente ad ogni secondo. Si deve tenere gli occhi bene aperti ed evitare un andatura troppo azzardata. Alla fine di un trekking così duro la tensione e l’attenzione si allentano naturalmente senza sapere che è proprio in queste circostanze che si rischia di farsi veramente male infatti vedo molti trekkinisti che in preda ad una frenesia assolutamente ingiustificata scendono velocemente producendosi in evoluzioni da acrobati per rimanere in piedi. A circa metà discesa uno di loro lo troviamo sdraiato nel fogliame con la caviglia rotta. Ora i suoi portatori dovranno raggiungere il Machame camp e ritornare fin qui con una barella per riportarlo giù. Questa operazione richiederà dalle 5 alle 7 ore e con questo terreno fangoso il rischio di farlo volare di nuovo sarà altissimo. Poveraccio.. ma sono certo che un po’ se la sia cercata. Noi comunque proseguiamo con attenzione raddoppiata fino al campo dove sotto l’acqua mi libererò di parte del fango che mi ricopre fin sulle maniche. È stata incredibile questa giornata e non la dimenticherò mai! Praticamente sotto tensione continua per tutto il tempo. Col pulmino facciamo ritorno ad Arusha al mio Outpost lodge dove mi regalo una doccia da urlo. Con un taxi raggiungo quindi Yasin il capo dell’agenzia turistica con il quale avevo opzionato un noleggio di jeep e driver per domani. Mi accordo sul prezzo dopodiché riposo un po’ per quello che mi è possibile dato che alle 5.30 del mattino arriverà il mio autista con il quale è previsto raggiungere il lontano Ngorongoro national park. Sono stanco morto e appena tornato da un trekking massacrante ma come faccio domani a ritornare in Italia senza aver visitato il parco più famoso d’Africa! Si parte in direzione sud lungo una strada asfaltata che poi abbandoniamo inoltrandoci nella savana che percorriamo fra mille buche ed avallamenti. Di tanto in tanto dei Masai con capre e vacche. Raggiungiamo un view point dal quale si spazia sul parco Manyara ed il lago omonimo per poi entrare dopo una breve salita all’interno del Ngorongoro national park conservation area. La foresta è presente da ambo i lati del circolar ring che corre tutto intorno a questo antico vulcano al cui interno è il cratere più grande esistente. Dopo una breve sosta per ammirare la straordinaria cartolina del cratere più fotografato del mondo discendiamo e non posso fare a meno di notare i numerosi lodge che ospitano turisti e viaggiatori di ogni dove venuti fin qui per ammirare la straordinaria arca di Noè che rappresenta il cratere giù di sotto dove già si può vedere al suo interno il lago Magadi sito nella parte sud occidentale. E’ sodico e perciò senza vita ma nel suo fango all’interno vi sono milioni di microrganismi di cui si cibano i fantastici flamingos che impreziosiscono il luogo creando una scenografia da mozzare il fiato. Il Ngorongoro è un catino di 23 chilometri di diametro dove all’interno, con un po’ di fortuna si può ammirare gran parte della fauna africana prevalentemente erbivora ma anche alcuni predatori come è capitato a noi con leonesse e iene maculate. Molto gratificante è stato anche l’avvistamento di alcune grù coronate senza dubbio tra i più belli uccelli che si possano incontrare. Il parco Serengeti è a fianco ed in determinati periodi dell’anno avvengono vere e proprie migrazioni immortalate con cadenza regolare da numerosi documentaristi. E’ arrivato il momento di tornare ad Arusha così lascio a malincuore questo luogo da favola ma i tempi del mio viaggio sono questi e purtroppo non posso fare diversamente. Domattina Yasin mi accompagnerà all’aeroporto internazionale congratulandosi ancora per il successo del mio trekking. Solo il 40% dei trekkinisti ce la fa ed in fondo è questa una bella soddisfazione tenendo conto delle mie ormai 43 primavere che mi accompagnano.

 

Proprietà letteraria riservata. Copyright © 2004 Daniele Mazzardi
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