2007 Uganda

Trekking Ruwenzori ( 5.109 m. ) - Le montagne della luna

 

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Sebastien all'entrata del parco

Da alcuni anni questo trekking era nei miei programmi e finalmente, dopo sei mesi di intensi allenamenti sono riuscito a realizzarlo. Il Ruwenzori mi ha costretto a mettere in campo tutte le riserve psicofisiche per vincere la fatica estrema a cui ero sottoposto ad ogni singola tappa. Non era solo la salita infatti, l’altitudine, ma le condizioni del terreno che creavano continui disagi al mio procedere. Fango, rocce, radici e le micidiali torbiere nelle quali si sprofondava fino alle ginocchia hanno minacciato di continuo il buon esito del progetto e solo con l’aiuto di Sebastien, la mia guida, sono riuscito a vincere la battaglia con la natura ostile. Considero questo viaggio come uno dei più belli da me effettuati ed essere riuscito ad arrivare alla soglia dei cinquant’anni raggiungendo un traguardo così ambizioso come il Margherita peak a 5.109 metri non può che inorgoglirmi. Trascorso il fine anno con amici e dopo un paio d’ore in casa per risistemare le idee, eccomi a guidare nel cuore della notte per raggiungere l’aeroporto milanese della Malpensa. Il volo della KLM è in orario come quello successivo da Amsterdam a Nairobi. Ora è il momento dell’ultimo salto fino ad Entebbe in Uganda dove mi aspetta un addetto dell’Aciacia tours contattato via internet. Purtroppo, come accade spesso in Africa il volo è stato cancellato ed insieme ad altri sventurati si trascorre la notte in un albergo pagato dalla Ethiopian airlines. Sono preoccupato perché in questo modo potrei vanificare quel prezioso giorno di riserva che avevo destinato ad eventuali problemi che potrei avere durante il viaggio. Il volo del mattino seguente atterra nella ridente cittadina sul lago Vittoria alle undici in punto. E’ Sandy che mi aspetta e con lui ci si dirige verso la capitale Kampala che dista 45 chilometri. Ho paura che non riusciremo mai ad arrivare fino a Ibanda, nei pressi del parco nazionale del Ruwenzori da dove domani si partirebbe per la prima tappa del trekking, ma dopo avere conosciuto il simpatico Costantino nel suo ufficio di fronte al casinò di Kampala, ci attiviamo per ripartire il più in fretta possibile. Con noi trasportiamo tutto il cibo che mi sarà necessario nei prossimi giorni. Durante il percorso chiacchiero con Sandy e vengo a sapere della presenza, nei pressi di Fort Portal della casa del re locale. Non ha alcun peso politico, ma è una figura carismatica per il popolo della zona. Al comando della nazione da quasi venti anni è il corrotto Museveni il quale però, conscio dell’importanza dell’aspetto tradizionale, lascia il 30 per cento delle tasse pagate dai locali ai re che tanta importanza hanno per i vari gruppi etnici del territorio. E’ una tradizione secolare in Uganda, come del resto in altri stati di questo affascinante continente. C’è anche il re dei Bukonjo, l’etnia che vive intorno alle montagne della luna: il Ruwenzori. Incomincia a fare buio e sta per materializzarsi il primo, grande pericolo!. Forse consapevole dei chilometri ancora mancanti e con la paura delle tenebre, Sandy sta aumentando la velocità, quando invece sarebbe necessario diminuirla, per via della diminuita visibilità. Ci ritroviamo a 100-120 km/h su strada insicura e con uomini, donne e bambini che camminano sul ciglio e che si spostano con calma al nostro arrivo. Sembra che loro sappiano che “devono spostarsi” e che dalle auto non riceveranno alcuna indulgenza, cortesia, precedenza. Sandy attraversa villaggi a velocità pazzesca. In Italia gli avrebbero ritirato la patente, stracciandogliela in faccia per tentato omicidio plurimo. E’ semplicemente incredibile il rischio continuo di investire qualcuno e saranno decine le volte in cui farà il pelo e contropelo alla gente. Accadrà ancora peggio durante la scorciatoia che prenderemo per raggiungere Ibanda. Saranno 20 chilometri di tensione inaudita lungo un percorso sterrato e con una umanità della quale ci si accorge solo coi fari della nostra Land Cruiser. Finalmente ecco il lodge. Conosco Sebastien, colui che sarà la mia guida durante i giorni del martirio e poi mi concedo una frugale cena dopo aver censito con lui l’attrezzatura che sarà necessaria per il trekking. Dormo abbastanza bene, ma ho un fastidioso mal di gola che mi preoccupa. Il cielo è terso, cosa molta rara da queste parti dato che Ruwenzori in lingua locale significa la montagna della pioggia. Presi i contatti coi portatori e noleggiati ramponi, corda e piccozza alla sede del parco, Sandy ci accompagna con la jeep per qualche chilometro dopodiché lo salutiamo dando inizio all’avventura. La prima tappa ci porterà dai 1.650 metri di Ibanda sino ai 2.650 della Nyabitaba hut. Subito un curioso albero di kigelia africana, dai grandi frutti e poco distante dei wild banana, commestibili solo dagli animali come elefanti e scimmie che vivono da queste parti. I primi escono all’imbrunire per mangiare ed è molto pericoloso incrociarli. Notiamo in alcuni punti la vegetazione schiacciata dal loro passaggio. Qui la chiamano elephant grass. Il percorso è accidentato e lo zaino mi pesa, ma per ora controllo bene il respiro. Attraversiamo il Mubuku river, il fiume più importante della zona e poi si sale. Posso così iniziare a testare la mia tecnica, le mie forze. E’ dura, ma tengo bene come bene tiene il tempo che da queste parte è piovoso come in pochi altri luoghi dell’Africa. Ad un certo punto tuttavia diventa davvero dura, terribilmente dura. Si sale con difficoltà fra radici e sassi lungo un percorso irregolare che mi obbliga di continuo a spezzare il fiato. Non immaginavo di pagare già così tanto e realizzo che non potrò mai farcela a completare il trekking. La salita è massacrante ed i miei battiti cardiaci sono alquanto anomali. Sto quasi ansimando!. Non riesco a gestire la respirazione ed il cuore mi scoppia in petto. Mi devo fermare più volte. Come farò per il prosieguo?. Verso la fine della tappa la pendenza si fa più blanda, ma arrivo alla Nyabitaba spossato alle 14.20 dopo 4 ore e 10 minuti. La baracca è composta da una zona anteriore ed una posteriore. Al loro interno dei giacigli a castello con circa 15 posti letto. Al momento ci siamo solo io e Sebastien perciò cerco di trovare la migliore sistemazione con la speranza di trascorrere una notte in solitudine e tranquillità. Passeggio un po’ ammirando la vegetazione ed uno strano uccello multicolore. E’ un turaco del Ruwenzori. Nel frattempo arrivano anche i portatori, partiti in ritardo da Ibanda. Sono tre e trasportano tutto il necessario per loro, oltre al cibo ed al mio sacco più grande. Dopo quasi un intera giornata senza mangiare, alle 19.30 arriva un ciotolone con riso e patate e quindi una zuppa di funghi. Purtroppo mi è venuto un fastidioso mal di testa che per fortuna mi passerà durante la notte, dopo aver opportunamente sgonfiato il materassino sul quale dormo. Sveglia alle 7.00 e dopo colazione infilo gli stivali in gomma, i migliori amici del Ruwenzori e partiamo scendendo dapprima fino alla confluenza tra i Mubuku e Bujuku river presso il Shelter bridge, costruito da pochi anni dopo che il precedente ponte era spesso distrutto dalle piene dei fiumi. Da qui si sale e duramente su terreno sconnesso, fango e sassi. Ogni tanto c’è una pausa di falsopiano che serve per tirare il fiato. Per ora mi sento bene e sembra che riesca a tollerare la fatica meglio di ieri. Il tempo è buono ed il mal di gola è solo un leggero fastidio. La vegetazione che ci accompagna è rigogliosa, con felci e muschi che talvolta ricoprono per completo molte piante. Ci sono dei curiosi fiori chiamati skadokas e poi eriche giganti. Sono in un ambiente da favola e la melodia della natura mi accompagna ad ogni passo. E’ fantastico!. Sono immerso nella natura primordiale!. Di tanto in tanto degli spiazzi che aprono alla vista vallate dalle mille tonalità di verde. Alla fine di un forte pendio si sosta per rifocillarsi con pane e cioccolato. Il mio pranzo sarà questo!. Si riparte e dopo un quarto d’ora comincia un tratto snervante con fango e rocce. Salita e discesa, discesa e salita. Scende la nebbia ed intorno muschi multicolori. L’ambiente è carico di umidità e farò ora la conoscenza con le micidiali torbiere del Ruwenzori. Sono zone che disintegrano letteralmente le riserve psicofisiche di un uomo, più di qualsiasi salita.. In genere sono zone pianeggianti, vallate infinite ricoperte ovunque da vegetazione tipo muschio e una erbetta che nasconde sotto voragini di fango. Camminarvi sopra è impossibile perché si sprofonda anche di mezzo metro, fino alle ginocchia. Per evitare di entrarci dentro si deve saltare su tronchi, rocce, radici e più spesso su cunette di vegetazione. Ci si aiuta con i bastoni per mantenersi in equilibrio, ma è massacrante e non si ha mai pace, nemmeno per un secondo. Ogni passo è reso difficoltoso ed anche pericoloso, perché una storta, una distorsione equivale ad una tortura per giorni con l’aiuto dei portatori fino a tornare ad Ibanda. Non c’è soccorso, non c’è elicottero!. Solo la guida ed i “porters” ti possono salvare e trasportare indietro!. Non oso nemmeno pensare cosa potrebbe accadere in caso di rottura di arti.  Terminate le torbiere iniziano salite mozzafiato fra rocce, fango, tronchi e sassi perciò nemmeno qui si parla di potere calibrare il passo. Oggi mi sento in forma, ma è faticosissimo e non ricordo tappe così dure nei trekking precedentemente fatti!. L’ambiente che ci circonda però è fantastico. Siamo solo io e la mia guida. Nessun altro!. Lobelie giganti e seneci hanno fatto la loro comparsa già da tempo ad impreziosire un quadro a dir poco straordinario. Arriviamo alla John Matte hut alle 16.00 dopo sette ore e mezzo durissime. Sono tutto sporco di fango e dopo aver sistemato le mie cose all’interno della capanna, provvedo a pulire i pantaloni impermeabili, stivali e ghette giù al ruscello. Alla fine di ogni tappa c’è sempre una capanna per i trekkinisti ed una più spartana per le guide ed i portatori. Sono a 3.400 metri, ed intorno al sito è una vegetazione che cerco di scoprire infiltrandomi per più di mezzora. Arriva la cena che consumo davanti ad uno spettacolo quasi commovente. Penso al frastuono di Milano, ai clacson e quasi mi scendono lacrime di felicità. Sono in un luogo incantato ed il silenzio imponente è rotto solo dal canto della natura. Prima di ritirarmi in una stanza, ancora sorprendentemente solo, viene a trovarmi Sebastien e mi informa sulla tappa che dovremo affrontare domani. Non sono buone notizie dato che sarà molto più dura di quella odierna. Sono scioccato!. Come può essere più massacrante di così?. Sono stanchissimo, ma ad aumentare la preoccupazione si mette anche un poderoso temporale con tuoni e fulmini che dura tutta la notte, durante la quale non riuscirò a riposare, avvolto da una preoccupazione che non saprò superare. Di mattina piove ancora e non riesco davvero ad immaginare come potrà essere il percorso che a dire di Sebastien avrebbe già dovuto essere fangoso di norma. Si parte alle 9.00 indossando il poncho e scendendo dapprima fino al Bujuku river. Si cammina nel fango ed in discesa. Devo controllare ogni passo per evitare incidenti. Raggiunto il fiume ecco la prima micidiale torbiera che porta a lower Bigo. E’ un inferno sotto la pioggia. Ci si deve aggrappare costantemente a ciò che si trova per non cadere nel fango ed i bastoncini sono indispensabili per mantenere l’equilibrio. Non ci si può distrarre un attimo. Ogni passo diverso dall’altro. Il respiro dopo poco se ne va con la volontà e la psiche. E’ terribile!. Un immensa distesa di fango e vegetazione subdola dentro la quale si sprofonda ad ogni errore. E’ un continuo saltare con equilibrismi da circo che sfiancano, tolgono il respiro. Dieci metri paiono cento e cento paiono mille, in un inferno  verde che pure è affascinante. Ci si sente parte della natura, ma qui lei è troppo forte per non temerla!. Una storta ed è meglio una tortura, perché avanti o indietro è solo incubo da non augurare al peggior nemico. Sarebbero giorni di martirio inaudito!. Ecco la lower Bigo!. C’è una grotta dove prender fiato. Sono distrutto … ma non immagino cosa mi aspetta!. E intanto piove, con l’umidità che mi è entrata ovunque. E’ meglio proseguire anche se vorrei ammirare ancora un po’ questa valle incantata terribile, piena di lobelie e seneci. Non c’è tempo di pensare e già si sale, nel fango, sui sassi, sui tronchi. E’ una tortura mai provata!. Al primo approccio il respiro se ne va e rimango solo col fiatone, il batticuore. Non c’è pace mentre il piede scivola all’indietro e vorresti smettere perché non ce la fai più. Si sprofonda e si sale!. Poi un tratto addirittura in discesa per poi salire ancora. Mai fatta una fatica così pazzesca e poi ancora discesa, aggrappandosi ai rami per non cadere. Ed ora la seconda incredibile torbiera della upper Bigo valley. Non ho più forze e talvolta solo i bastoncini sorreggeranno il corpo, distrutto da una fatica impossibile da descrivere. La vallata termina come la pioggia davanti ad una salita altrettanto inquietante. Sono le 12.50 e dopo un tozzo di pane e cioccolato si riparte, raggiungendo la cima, per fortuna con meno difficoltà di quella prevista. Ammiro la stupenda vallata appena percorsa. Sebastien dice che la Bujuku hut non è distante ed è situata dopo il lago omonimo, ma è un errore pensare che sia finita perché si corre il rischio di farsi prendere dallo sconforto quando si presenta ancora il mare di torbiera. Sarà un tratto dove la fatica sarà intollerabile. Si procede costeggiando il lago e sempre nel fango. Si salta sulle cunette di vegetazione, restando in equilibrio su di esse fino a saltare sulla prossima lasciando per strada ogni residuo di volontà e risorsa psicofisica. E’ terribile lo sforzo, snervante. Io sono così stanco ed arrabbiato che me la prendo con le cunette e con Sebastien. Cado, mi rialzo sporco di fango fino ai gomiti. Mi fermo, disperato dalla fatica a cui non so più rispondere con la volontà. E’ una tortura pazzesca e cado ancora spossato, restando nel fango. Dovrei vedere dove poggia i piedi Sebastien per evitare errori, ma mi si annebbia la vista dalla spossatezza e poi devo guardare dove metto i piedi. Non posso fissare anche lui contemporaneamente perché ogni passo è un rischio di caduta. Incredibile!. Distrutto mi fermo col sedere su una cunetta e piove ... anzi grandina!. Ma sono chicchi strani di ghiaccio, piccoli e leggeri, quasi simpatici, mentre io sono curvo nel mio dolore ad ascoltare la grandine che mi batte sulla schiena, sulla testa. Sono disperato, in un avventura più grande di me, nonostante nei precedenti viaggi ne avessi già fatte di tutti i colori. Se volessi dire basta e tornare indietro non sopporterei di rifare lo stesso percorso. Non scorderò mai questi momenti!. Si riparte lasciandoci alle spalle il lago e dopo quasi un ora di ulteriore supplizio indicibile, finalmente ecco la sagoma della Bujuku hut. Alle 17.00 dopo otto ore di incredibile martirio faccio il mio ingresso sotto una pioggia battente, liberandomi da un poncho ormai divenuto insopportabile. Purtroppo sembra non esserci posto e guardo Sebastien con uno sguardo di odio. Dove mi metto adesso?. Sono distrutto e vorrei sdraiarmi!. Ci sono solo tedeschi ed alcuni di loro paiono armadi. Hanno degli scarponi che sembrano adatti per l’Everest, mentre io mi sento ridicolo nei miei stivali, tanto amici del Ruwenzori!. Sono in piedi davanti a loro che mi osservano cercando di darmi il benvenuto, ma io non li guardo nemmeno. Non ho forze per parlare e cerco di trovarmi un giaciglio nei pressi della porta, mentre loro cercano di spostare alcune delle loro cose per consentirmi un maggior spazio.  Fa freddo, così dopo aver sciacquato via il fango da tutto ciò che ho addosso con l’acqua del ruscello vicino, entro nel sacco a pelo in attesa dell’arrivo della cena. Consumato l’intruglio di riso e patate, vado all’esterno a fumare una sigaretta. Per fortuna il tempo è cambiato e si vedono addirittura le stelle, lassù in cima ai monti Baker e Stanley. Intorno a me è tutto Ruwenzori, solo Ruwenzori e l’adrenalina esplode, senza confini. Domani si va alla Elena hut ed ormai si entra nelle tappe che contano. Ritorno nel mio sacco a pelo riposando grazie al cielo le ore necessarie a rimettere un po’ in sesto il mio fisico distrutto dalla fatica. Di mattina mi svegliano i tedeschi, con i loro rumori e dopo aver sistemato per bene tutte le mie cose e fatto colazione con uova e pane si parte alle 8.30. Il cielo è incredibilmente azzurro, in contrasto col tempo fetido di ieri. Che fortuna!. Ora che si fa davvero sul serio avrei bisogno almeno dell’aiuto clemente del tempo!. Dapprincipio si ridiscende verso la valle affrontando di nuovo il solito incubo torbiere e quindi, dopo una buona mezzora si comincia a salire fra fango, sassi e tronchi. La fatica è tanta, ma di mattina si ha più energia per affrontare le cose fino a che però si esagera e si esauriscono come al solito. L’ascesa è durissima, in condizioni quasi improbe.  Alle volte bisogna aiutarsi con le mani e salire sulle rocce. Di tanto in tanto ci sono delle scale fisse, poste per superare tratti particolarmente difficili. Dopo la seconda scalinata sono letteralmente distrutto. Mi fanno male i muscoli delle gambe dallo sforzo continuo, stressante. Ci si ferma a mangiar qualcosa alle 11.30. Questa salita è stata anche pericolosa e voglio ritrovare la giusta concentrazione per affrontare il prosieguo della tappa. Non avrei mai immaginato di fare una fatica simile. Sono sincero!. A vedere un film in anticipo di ciò che si passa, solo un masochista può accettare di vivere un simile supplizio ed io ho comunque già avuto esperienze al Kala Pattar in Nepal a 5.575 metri, sul Kilimanjaro a 5.895 metri e all’Aconcagua al rifugio Berlin a 5.850 metri. Si continua a salire in condizioni durissime e una pendenza esagerata. L’ascesa è semplicemente mostruosa, anche se Sebastien mi avverte che alla fine di questa asperità si dovrebbe vedere il rifugio. Questo sarà vero, ma è anche vero che sarà l’inizio di un altro tratto altrettanto micidiale da affrontare con le antenne bene sintonizzate sul terreno!. Davanti a noi ci sono ora solo rocce, grossi massi per la maggior parte scivolosi o coperti di neve. Sarà un avanzata pericolosissima, col continuo rischio di scivolare giù, chissà dove, fracassato su qualche roccia, morto o con qualche arto frantumato. Non voglio guardare dietro, ma solo avanti e ascolto sotto i miei stivali ogni centimetro. Sarà inutile se in decine di circostanze, su massi enormi e senza appigli si scivolasse. Questi sono momenti duranti i quali non si può spiegare cosa si prova. Non siamo imbracati qui!. Lui è avanti a mostrarmi dove mettere i piedi ed io dietro a porli dove ha cercato di indicarmi lui. Un errore, un impercettibile errore e si scivola giù per dieci, venti, trenta metri, rovinando sulle rocce. Ho paura!. Una paura mai provata nemmeno durante l’entrata nel campo profughi di Kibumba in Zaire dopo la guerra tra i Tutsi e gli Hutu del 1994. Mai ho rischiato la vita in questo modo e non immagino nemmeno cosa vorrebbe dire averla salva, ma spaccarsi una gamba, un braccio. Sarebbe meglio crepare!. E’ un avanzata snervante, ma non posso fermarmi e tornare indietro!. Devo solo proseguire, col rischio talvolta azzardato di scivolare. In alcune situazioni ho la netta, chiara sensazione che il mio prossimo appoggio non sia sicuro, certo e che se così non fosse scivolerei chissà dove. E’ una consapevolezza da brividi, ma non posso fermarmi. Solo fidarmi di Sebastien … e della mia buona stella!. E’ una tensione pazzesca, ma ora la Elena hut è di fronte a noi, così solitaria, selvaggia. E’ una casupola quasi sospesa sui massi in mezzo ad un panorama da sballo. Siamo a 4.540 metri ed ora dovrò sputare sangue per arrivare alla vetta del Margherita peak. Non saranno certo 500 metri di dislivello a potermi fermare!. Non posso immaginare cosa mi aspetta!. Sono solo, in questo mondo d’alta quota, di neve e di nebbia che ora sta calando ad avvolgere tutto. Non c’è spazio per i portatori qui e dopo aver portato le mie cose fin quassù, loro devono ritornare alla Bujuku hut. Incredibile! Rimaniamo solo io, Sebastien ed il portatore cuoco, James. Questa tappa è durata cinque ore e mezza, ma ha mi ha messo alla prova in modo tremendo, tanto che ho i muscoli tutti indolenziti. Arriva Sebastien con il quale si mette a punto la scalata di domani. Mi insegna l’uso dei ramponi, della piccozza e del movimento che bisogna fare nel caso sfortunato che qualcuno di noi scivoli in qualche crepaccio. Durante tutto il percorso saremo imbracati ed una corda ci terrà legati l’uno all’altro. Intorno alle 17.00 noto i tedeschi di ieri scendere da un canalone pazzesco in direzione della capanna. La mia guida dice che loro hanno deciso di seguire la via direttissima che dalla Bujuku hut porta su alla vetta. Ecco il perché della loro sveglia mattutina. Durante tutta la sera sarò testimone della loro felicità nell’essere riusciti ad arrivare fin su in cima. Dopo cena cerco di riposare, anche se in queste condizioni psicofisiche, e prima di una giornata così importante è quasi impossibile strappare ore di sonno. Il freddo poi è notevole e mi costringe ad una notte tormentata. Mi spegnerò solo di tanto in tanto, senza mai riposare appieno. Ci siamo!. E’ il giorno fatidico che aspetto da anni, ma la sveglia è tremenda. Le gambe mi fanno male e non riesco nemmeno a sollevarle da sdraiato. Come farò?. Ho i tendini che mi affliggono, ma mi sistemo ugualmente in attesa dell’arrivo di Sebastien. Dopo colazione mi faccio aiutare a sistemare l’imbracatura e partiamo alle 7.00, in ritardo rispetto all’ora prevista. Il tempo è splendido e quale migliore regalo per una giornata così importante!. Il percorso comincia sulle rocce scivolose, ma con i scarponi e la temperatura più rigida di ieri pomeriggio, il nostro procedere risulta nettamente meno pericoloso. Ha inizio ora un pauroso canalone quasi verticale. Siamo imbracati, ma questo non può essere una certezza in caso di caduta. Come farebbe lui, davanti a me a bloccare un peso di settanta chili in caduta?. Certamente avrà delle tecniche, ma non vorrei mai testarle!. Quello a cui mi sto accingendo è sbaraglio come mai ho vissuto in vita mia. E’ un arrampicata su rocce, a mani nude a 4.600 metri. Saranno le due ore più agghiaccianti mai trascorse!. Già dopo una decina di minuti devo superare un ostacolo apparentemente insuperabile. Non riesco a trovare la presa ne col piede, ne con la mano destra e non so proseguire. Sebastien mi dice di prendere la sua mano. Dietro in caso di caduta avrei il vuoto. Salto o non salto?. Vorrei tornare indietro!. Sono in tutti i sensi nelle mani della mia guida. Devo smetterla con queste pazzie!. Devo abbandonare e tornare indietro, ma lui mi convince a saltare e mi afferra sporgendosi e trascinandomi verso l’alto con una forza incredibile. Ora ho superato la difficoltà, ma come farò al ritorno?. Ci saranno altri tre o quattro punti terribili come questo ed in ognuno vorrò abbandonare e solo grazie a Sebastien, ai suoi incitamenti li supererò, tuttavia sono distrutto psicologicamente. In questo momento so di non avere le forze necessarie per raggiungere il lontanissimo Margherita peak e non posso permettermi nemmeno di tornare perché un altro fallimento, dopo la sconfitta della tormenta sull’Aconcagua non la tollererei e mi getterebbe in una situazione psicologica ingestibile con grave, quasi certo rischio di fare errori da delusione insopportabile. Vorrei sparire nei cieli, scomparire perché non ho più volontà, ma devo solo continuare, non posso tornare indietro, per la mia incolumità. Non si può descrivere l’incubo che mi investe ad ogni passo. Sono due ore di inferno e raggiunta la cima del canalone, guardando il vuoto alle mie spalle mi pare incredibile di aver fatto quello che ho fatto. Sembro un sacco svuotato di ogni energia anche per colpa della cattiva alimentazione!. Questo trekking scoprirò alla fine mi ha succhiato via qualcosa come sette chili di peso. Sebastien continua a darmi forza anche se il picco mi pare lontanissimo, irraggiungibile. Procedo solo con la risorse della volontà. Il terreno non ne vuole sapere di diventar regolare e anche ora c’è da circumnavigare uno sperone di roccia superandolo saltando sulle rocce, aiutandosi con le mani e con le reni. Non c’è pace,  ma raggiungiamo il magnifico Stanley plateau. Calziamo i ramponi, dato che d’ora in poi il percorso sarà solo su neve e ghiaccio, regolare anche se in alcuni tratti durissimo. Subito dobbiamo affrontare una pendenza pazzesca dell’80%, immersi nella nebbia che d’improvviso è calata su di noi conferendo all’insieme un non so che di irreale, spettrale. Il mio procedere è lento però ponderato. All’inizio gestisco bene la fatica trovando un ritmo respiratorio corretto, ma è dura, troppo dura la salita. Il cervello è bersagliato da mille paure, incertezze mentre vado avanti fino a raggiungere la sommità della sella da cui si procede in falsopiano tagliando tutto il plateau. Si deve stare attenti a non scivolare. Alla mia destra c’è un ripido pendio di centinaia di metri. Ogni tanto sosto data la fatica per me insopportabile, nonostante il percorso sia ora più agevole. Il tempo cambia ogni quarto d’ora e mi impone ripetutamente di trovare un adeguato abbigliamento. Il percorso su questo falsopiano pare infinito e mi ricorda la terribile Playa ancha dell’Aconcagua. Finalmente ha termine la tortura. Ora però dovremo scendere un tratto fino a dietro le rocce, per poi salire di nuovo fino a quelle della vetta, in direttissima. Da adesso si dovrebbe solo salire, salire. Devo mantenere la calma e il passo giusto. Non si può immaginare però cosa sia questa ascesa!. E’ tornata la nebbia che avvolge tutto, Sebastien, le montagne e i miei pensieri. Rimane solo il pendio, terrificante, sul quale forse non esiste tecnica che possa aiutare. E’ solo forza per far salire il passo. Avanti a me la visione è sempre la stessa: neve, neve e una pendio impossibile. Ora però so che ce la posso fare. Le rocce della vetta sono là. Non le vedo, ma dovrebbero essere là, da qualche parte. Ogni passo mi potrebbe avvicinare al successo ed è questa la forza aggiunta che mi spinge. Improvvisamente si dirada la nebbia ed il Margherita peak è ancora lontano, troppo lontano. Vicino a noi ci sono le cascate di ghiaccio dell’Alexandra peak  Sostiamo per ritrovare un po’ di fiato. Anche per Sebastien è dura ma per lui è già la sesta volta che viene quassù. Tiro fuori ogni forza residua e dopo un'altra ora terribile eccomi alle rocce finali. Da una parte un pendio infinito dove potremmo scivolare anche per un chilometro e dall’altra una scala a pioli di metallo che sale in verticale il primo tratto di rocce. Stacchiamo i ramponi ed iniziamo l’arrampicata. Sebastien procede sulla scala continuando subito dopo aiutandosi con le doppie corde fisse. A prima vista mi pare impossibile che riesca a sollevarmi con la sola forza delle mani. Sono necessari appigli che non trovo e questa volta considero davvero impossibile l’avanzata. Non ho mai fatto queste esperienze di scalata e lo giudico realmente fuori dalla mia portata, specie ora che non riconosco più forze nel mio sacco vitale. Sono appeso con i piedi in posizione precaria su due piccole sporgenze e le mani aggrappate alle corde. Dietro di me il vuoto pauroso. Cadere qui vuol dire fermarsi chissà dove in qualche crepaccio. Proseguire è impossibile dato che non vedo più appigli avanti a me ed anche se riuscissi ad issarmi ancora non avrei di che appoggiare piedi o mani. Non posso darmi il colpo di reni e salire ancora, lasciare l’appiglio precedente per il nulla. Avverto Sebastien che non so procedere e lui mi dice di non preoccuparmi, mi tirerà su lui. Mi fido e come previsto, non trovando  sporgenze resto a dondolare pericolosamente nel vuoto. Un attimo dopo però sento che mi sta sollevando seppur di poco consentendomi di trovare una presa. Dovrò superare ancora un paio di volte difficoltà di questo genere finché la verticale termina e resta solo da circumnavigare lo sperone, sempre aiutandoci con le corde fisse. E’ meglio non guardare sotto perché sarebbe devastante per la psiche. Finalmente ecco la targa della vetta!. Saranno gli ultimi cinquanta metri da urlo e mi faccio anche riprendere da lui con la telecamera. Ho l’adrenalina che mi inonda le vene ed il cervello. Non so bene cosa ho fatto, i pericoli che ho corso e la fatica inenarrabile, ma ora sono a pochi passi da una gloria personale che mi trascinerà la vita ancora per qualche anno. Non posso crederci!. Sono in cima!.  Tolgo il pesante zaino e lo appoggio alla targa che indica, inequivocabilmente “Margherita peak, 5.109 metri”. La tensione è troppa e la stanchezza infinita!. Piango come un bambino per cinque minuti mentre urlo:”Ce l’ho fattaaaaa!”. Le lacrime mi scendono dagli occhiali d’alta quota e mi scivolano sulle guance, ma non me ne curo. Sebastien se ne accorge ed anche lui è felice per me!. E’ l’apoteosi!. Intorno  a noi è come se si fosse aperto il cielo ed ora i nostri sguardi spaziano lontano, fino al monte Edward ed Alexandra. Ci abbracciamo felici e poi, mentre lo filmo, lo ringrazio urlandogli la mia gratitudine. Senza di lui non avrei mai superato quel terribile canalone davanti alla Elena hut. Grazie Sebastien!. Grazie davvero!. Mi hai regalato una soddisfazione che pochi al mondo possono vantare, anche se non si tratta di una vetta himalayana. Quassù non c’è molto per girarsi e saranno 7-8 mq. di superficie in tutto. Ci rifocilliamo con cioccolato e pane dopo sette ore di una fatica bestiale. Ora è meglio ritornare e non sfidare la montagna. Il tempo può cambiare in un amen ed infatti sta tornando la nebbia. Davanti a me ho un percorso infinito fino alla Elena hut. Alle 15.00 si riparte lungo il costone, aggrappandosi bene alle corde fino a raggiungere di nuovo la verticale sulle rocce. Giù non si vede niente e so solo farmi scivolare con l’aiuto di Sebastien. Ancora una volta appeso al vuoto e quindi la scala a pioli fino all’inizio del pendio di neve e ghiaccio. Calziamo nuovamente i ramponi e giù per la direttissima. Cadrò tre volte scivolando per qualche metro. ma ogni volta saprò fermarmi piantando sul terreno la piccozza. La grandine cade ora su di noi. Non ci da fastidio. Sono piccoli chicchi e di peso leggero. Terminata la terribile discesa si risale per un centinaio di metri ritrovandoci sullo Stanley plateau.. Procedo bene anche grazie al morale alto, mentre il tempo migliora ed esce un pallido sole. Non abbiamo incontrato nessuno tutta la giornata e siamo solo noi con la montagna, stupenda, maestosa!. Terminato il lungo tratto del plateau, ecco finalmente la roccia dove togliamo i ramponi. Ci aspetta l’ultima difficoltà, alla quale mi sforzo di non pensare, ma non ho intenzione di vanificare questa impresa con errori o disattenzioni. Piuttosto scivolerò sui massi!. Alla Elena hut voglio arrivare sano e salvo!. Devo portare a casa la pelle per raccontare questa che è forse la più straordinaria avventura della mia vita. Siamo legati con le corde ed io lo precedo. Seguendo le sue indicazioni riuscirò a terminare l’incredibile giornata senza danni. E’ fatta!. Sono le 18.20 e praticamente distrutto dalla fatica raggiungo la capanna ancora una volta splendidamente a mia completa disposizione. Dopo una frugale cena cerco di sistemare il giaciglio per recuperare le forze. Nella mente rimbalzano di continuo le immagine di questa giornata indimenticabile. Dopo una notte al gelo e poche ore di riposo eccomi alle 7.00 a preparare le mie cose per la partenza. Il sole ha già invaso la valle. Che fortuna!. Colazione con riso al burro che mi cucino io per evitare anche stavolta di rimanere in debito di forze e quindi si parte. La tappa sarà breve e ci porterà fino alla Kitandara hut. Dopo un tratto non troppo disagevole fra enormi massi si aprono dinnanzi a noi grandi spazi invasi dagli everlasting flowers e da una moltitudine di seneci. Ammiro dall’alto la bella Kitandara valley in fondo alla quale ci sono i due laghi omonimi, l’upper ed il lower. Nei pressi del lower è la Kitandara hut a 4.023 metri. Si intraprende la discesa in un clima piacevole ed una vegetazione fantastica fatta da centinaia di seneci giganti e lobelie gibberoa. Raggiunto il lago Kitandara superiore lo si costeggia per poi risalire parzialmente nei pressi della montagna. Fa di nuovo la comparsa il fango, ma è gestibile senza particolari problemi. Si ridiscende nuovamente verso il lago e dopo un tratto pianeggiante, ecco la Kitandara hut. Sono le 13.15. La tappa è durata solo quattro ore. Il lago è vicinissimo e tutto intorno è una vegetazione straordinaria, selvaggia fatta di decine di specie. Sistemo le cose nel mio giaciglio ed anche per stanotte avrò tutta la capanna a mia completa disposizione. Incredibile fortuna!. Prendo un formaggino, the, biscotti e mi reco in riva al lago dove trascorro un ora estasiato, ascoltando la pace, i suoni della natura. E’ un idillio. Nessuno disturba la quieta e vivo momenti di indescrivibile piacevolezza. Dispongo quindi per la cena e stavolta ci voglio pensare io, cucinandomi degli spaghetti mentre preparo a parte un minimale sugo rosolando della cipolla rimasta e del tonno in scatola. Finalmente un pasto decente che mi rida un po’ di fiducia di terminare questa incredibile avventura sano e salvo. Senza energia si rischiano errori davvero evitabili. The, sigaretta nei pressi del lago e la magia che continua sino al tramonto. Sistemo addirittura due tappetini in gommapiuma sul giaciglio e buonanotte. Domani è in programma una delle tappe più massacrante e devo riacquistare le necessarie forze!. Nonostante l’ottima sistemazione non mi riesce di riposare bene nemmeno stanotte!. Mi preparo un riso al burro per colazione e alle 7.30 si parte. Il tempo è ancora buono. Davanti a noi è però la dura ascesa fino al Freshfield pass a 4.215 metri. La pendenza è di tutto rispetto fra fango, rocce, tronchi e sassi che mi impegnerà strenuamente per due ore succhiandomi via ogni forza residua. Dal passo si gode un panorama straordinario. Centinaia di seneci e gli everlasting flowers fanno da cornice ad una cintura di monti che vanno dal Baker all’Edward, fino al Luigi di Savoia. Guadagniamo abbastanza agevolmente l’inizio della Guy Yeoman valley in fondo alla quale c’è l’omonima hut, ma questo non deve iniettare false aspettative. La capanna è lontana!. Persino di più!. Inizia un percorso in netta discesa su un tracciato misto con grandi rocce. Sarà un calvario dato che la pendenza a cui si procede è elevata e mettere un piede in fallo o scivolare su questi massi significherebbe rotolare giù per diverse decine di metri. E’ ovvio che andare in montagna richiede attenzione, tuttavia qui è davvero un azzardo!. Non siamo più imbracati. Lui è davanti per mostrarmi i punti migliori d’appoggio. La tensione è palpabile. Talvolta mi parrà impossibile proseguire e mi sdraierò sul masso aumentando la superficie di contatto con le mani. Alla fine di questo pericolosissimo tratto Sebastien per la prima volta mi dirà ”welcome!”. Lo ha pronunciato per salutare il mio superamento di questo pericolo. Molti trekkinisti dice, su queste rocce si sono rotti gambe, braccia. Cadere qui infatti è semplicissimo ed il trauma, quasi certo. In caso di tempo piovoso o particolarmente umido questo percorso può davvero costituire una carneficina. Raggiungiamo finalmente giù in basso il Mubuku river in riva al quale sostiamo per rifocillarci. Ci raggiungono più tardi anche James e gli altri due portatori con i quali trascorriamo un quarto d’ora di riposo. Sono le 11.50 e mi aspettano ancora ore di vera e propria crudeltà nel fango. Ogni minuto, ogni secondo, ogni attimo devo prestare la massima attenzione a dove metto i piedi per non sprofondare. Devo saltare e tenermi in equilibrio coi bastoncini. Continuamente!. Per cinque interminabili ore!!. E’ senza alcun dubbio la parte più stressante del trekking!. La Guy Yeoman valley pare non avere fine. Sono così esaurito a livello psicofisico che mi arrabbio persino con l’ambiente e sbatto violentemente i miei bastoncini sulle terribili cunette di vegetazione sulle quali si è obbligati a saltare ogni volta per non finire immersi nel fango. E ogni volta c’è rischio di distorsioni. Al solo pensiero cerco di rintracciare dentro me ancora più attenzione, ma come si può restare concentrati sempre, ogni attimo e secondo?. Di tanto in tanto mi prendo una pausa di qualche minuto anche se spesso non esistono nemmeno punti dove sostare ed allora sono costretto a fermare in piedi utilizzando i bastoncini per sorreggermi il collo e la testa, disegnando forme che testimoniano prostrazione massima. Non si può nemmeno sostare sulle cunette perché poi non c’è spazio giù per poggiare i piedi che sprofonderebbero nel fango. Non si può immaginare che tipo di assurda tortura sia questa!!. Verso il termine della tappa, nei pressi delle cascate Kabamba mi sdraierò letteralmente in uno spazio erboso dopo decine di cadute o semi tali. Sono coperto di fango persino sulle maniche. Il martirio termina solo a circa dieci minuti dalla fine della tappa. Raggiungiamo la Guy Yeoman hut a 3.261 metri alle 17 in punto dopo nove ore  e mezzo di autentica tormento. Riordino ogni cosa dandomi una ripulita totale. James mi porta il tonno rimasto di ieri e mi fa una sorpresa preparandomi delle patate a tocchetti, fritte in olio di semi. Ho davvero bisogno di calorie perché oggi temo di averne perse in quantità industriale. Non mi sono mai visto così magro da sei anni!. Anche stavolta, tutta la capanna a mia completa disposizione e se considero anche il bel tempo in generale che mi ha accompagnato durante quasi tutto il trekking, credo di aver goduto di una fortuna quasi imbarazzante. Qui è paragonabile ad una media vincita alla lotteria!. Se avessi dovuto combattere anche con un tempo piovoso, credo che i contorni si sarebbero fatti quasi certamente drammatici. Qui non si scherza e le cadute su massi scivolosi possono avere esiti fatali. Evidentemente ho una buona stella in cielo che considera l’enorme impegno che metto nelle cose e non mi ostacola durante imprese come queste!. Mi era già capitato durante i trekking al Kala Pattar in Nepal e sul Kilimanjaro di trovare le condizioni ideali di tempo e solo durante il pazzesco tentativo sull’Aconcagua sono stato fermato da una bufera di neve proprio il giorno prima dell’ascesa alla vetta che mi avrebbe consentito di raggiungere altezze proibitive per una persona normale a quasi 7.000 metri. Chi può dire però che anche in quel caso non sia stata la buona stella a impedirmi un ultimo tratto che mi avrebbe provocato danni irreparabili. Avevo mal di gola, ero emaciato e forse avrei pagato danni polmonari irreparabili!. Va bene così!. Non lo potrò mai sapere perché penso proprio che non organizzerò mai più viaggi così terrificanti per il mio fisico!. Mentre sto scrivendo però non sono già più così certo che l’adrenalina che mi scorre al posto del sangue, non sappia materializzare prima o poi qualche altra pazzia come questa!. Per ora sono nel mio sacco a pelo, felice di aver superato anche questa difficoltà. Domani è  in programma l’ultima tappa che ci porterà di nuovo all’ingresso del parco a Nyakalengjia. Sarà lunghissima, snervante e faticosa, ma spero di non dover patire, almeno considerando le parole di Sebastien il martirio di fango di oggi. Ho già provveduto a gratificare di adeguata mancia sia lui che i portatori ed ora sono tutti felice nella loro capanna e stanno cantando. All’interno del mio sacco a pelo ripasso nella mente i momenti salienti del trekking e non riesco davvero a credere di aver superato tutte queste difficoltà!. Fa stranamente un gran freddo stasera e sono coperto con tutto ciò che dispongo. Sveglia all’alba dato che l’ultima tappa è davvero lunga. Colazione alle 6.00 e partenza alle 7.00 lungo un percorso di media difficoltà per poi ridiscendere pericolosamente lungo un tratto di grossi massi come ci era già capitato ieri. Devo stare molto attento!. Non vorrei mi capitasse una disgrazia proprio ora che sto concludendo il trekking!. E’ dura, ma meno di ieri anche se un errore porterebbe davvero a serissimi danni. Dopo l’ennesimo tratto impegnativo giù per una scalinata fissa, ecco un altro “welcome” da parte di Sebastien. Sostiamo un poco per mangiare qualcosa e percepisco in lui soddisfazione. Mi fa capire che le difficoltà vere sono finite. Ce l’ho fatta!. Sono solo però le 9.15 ed inizia ancora un percorso nel fango. Le cunette non sono presenti e per superare indenni i punti più difficoltosi è sufficiente fare equilibrismi su tronchi, rami gettati sul terreno. E’ persino divertente anche se dopo un po’ snerva, ma ci sono anche tratti di sentiero normali. Mi pare di sognare. Non pensavo esistere più!. Finalmente assume i contorni di un trekking normale. Raggiungiamo la Nyabitaba hut alle 12.30. Sono distrutto dalla fatica, complice la cattiva alimentazione che mi ha debilitato enormemente. E’ quasi finita e d’ora in avanti il percorso sarà sgombro di fango. Pulisco sotto l’acqua i miei pantaloni impermeabili, le ghette, gli stivali e calzo ora gli scarponi. Mangio qualcosa con un po’ di the e si riparte. Sebastien finalmente riesce a comunicare con Costantino tramite il telefono cellulare e lo informa della nostra posizione. Un’altra guida mi sta già aspettando ad Ibanda!. Si riparte e cerco di mantenere un passo più spedito. La discesa però è ripida e non ho fatto i conti col mio fisico ormai ridotto ad uno straccio. Sebastien mi fa notare il Ruwenzori turaco, uccello tipico di queste parti e più avanti anche una blue monkey. Mi fanno male le caviglie ed in alcuni punti mi fermo piegato in due dalla spossatezza . Quasi mi gira la testa dalla fatica ed anche se il percorso è oggettivamente tollerabilissimo non ne ho più per sopportare nulla!. E’ una violenza ormai ogni lieve salita e proseguo solo con la forza di volontà. Finalmente ecco il gate con la targa che indica la fine del trekking. L’ufficio del parco è più avanti e dopo aver assolto all’obbligo di compilare con le mie generalità un libro che mi presenta il guardaparco, proseguiamo a piedi verso il villaggio. Lungo la strada incontriamo la mia prossima guida, Felix che ha pensato di venirci incontro. Riconsegnata l’attrezzatura al quartiere generale del Ruwenzori national park non mi resta che salutare carinamente tutti i componenti del mio gruppo con la promesse che invierò loro alcune foto che li ritraggono. Sono le 16.30 e lungo la strada pianifico il programma di domani insieme a Felix. Per intanto dobbiamo raggiungere l’entrata del Queen Elisabeth park. Sono le nove di sera quando facciamo il nostro ingresso percorrendo col contorno di un fantastico tramonto piste dove ammiriamo alcuni ippopotami, dei facoceri ed un gruppo di enormi elefanti africani. Ecco il famoso Mueya lodge dove trascorrerò la notte anche se la struttura che mi ospiterà sarà solo l’ostello lì vicino. Durante i miei viaggi se posso evito di gettare denaro per alloggi costosi, privilegiando sistemazioni più modeste. Riesco a comunicare con mia moglie che sarà ormai preoccupata di non avere mie notizie ed infatti è felice di sentire da me il buon esito del trekking. Finalmente una cena decorosa con un tilapia(pesce persico locale) bagnato da una piacevole Nile beer. L’appuntamento è per domattina presto quando percorreremo i sentieri del parco con la speranza di individuare qualche predatore anche se sono dubbioso di incontrarli in questo parco che tanta devastazione di fauna ha patito durante i decenni scorsi, quando le dittature di Obote prima e Idi Amin dopo hanno ridotto drasticamente le presenze animali. Il mio alloggio è spartano, ma almeno ho un letto ove far riposare le mie stanche ossa. Il mattino seguente partiamo alle 6.30 e come previsto non avvisteremo nessuna iena, tanto meno  leone o leopardo. Ammireremo solo i soliti facoceri, oltre alle Uganda kobs(antilopi locali). Percorriamo molte piste senza però fare incontri particolarmente interessanti. Solo gli elefanti ci regalano qualche emozione degna di nota. Dopo essere tornati all’hostel per consumare la colazione ripartiamo. Purtroppo il tempo a mia disposizione non è molto e quest’oggi dobbiamo anche far ritorno a Kampala perciò, per evitare il rischio di andature pericolose durante ore serali preferisco prendere la strada della capitale. Prima di uscire dal parco però sarò spettatore di un entusiasmante momento a strettissimo contatto con enormi elefanti al pascolo. Il viaggio è oramai terminato!. Raggiungiamo Kampala a tarda sera.  Felix mi aiuta a portare i bagagli nella mia stanza all’Holiday express hotel di questa estremamente caotica ed inquinata capitale africana. Durante la cena, consumata nella sala ristorante riceverò la visita di Costantino, venuto a complimentarsi per la buona riuscita del trekking e per consegnarmi una pergamena attestante il mio raggiungimento del Margherita peak a 5.109 metri. L’indomani mattina Felix mi accompagna all’aeroporto di Entebbe dove purtroppo dovrò ancora risolvere altri problemi. Il mio volo per Nairobi infatti è stato cancellato ed dovrò attendere fino al pomeriggio un'altra combinazione che mi porti fino in Kenia. Dopo un ottima cena in aeroporto gustando un ottimo T bone con patate, parto alle 22.50 in direzione di Amsterdam e quindi Milano Malpensa. E’ stato un viaggio straordinario, un gioiello che impreziosirà per sempre la mia valigia di ricordi.     

 

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