2004 UZBEKISTAN

 La Terra di Tamerlano

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Khiva - Medressa di Amin Khan e il Kalta Minor

Mi mancava un viaggio di questo genere, nel cuore dell’Asia centrale e con l’Uzbekistan ora penso di aver colmato questa lacuna all’interno della mia carriera di viaggiatore. Due sono stati gli aspetti salienti che hanno caratterizzato questa esperienza. Da un lato ho potuto ammirare un patrimonio artistico assolutamente rilevante nel panorama della cultura islamica e dall’altro vedere una società proveniente dal disfacimento della vecchia Unione Sovietica, con le sue contraddizioni e le sue caratteristiche. Con un volo della Turkish raggiungo Istanbul per poi proseguire con l’Uzbekistan airways che dopo quattro ore atterra a Taskent, la capitale. E’ l’1.30 del mattino e dovrò aspettare in aeroporto fino al seguente volo interno che mi porterà nel lontano ovest del paese, ad Urgench. Nel frattempo incontro i due rappresentanti del tour operator contattato via internet dall’Italia ai quali pago il saldo del viaggio. Non parlano una parola di inglese e si comunica solo a gesti. Mi consegnano il biglietto della tratta interna ma l’aeroporto nazionale adiacente è chiuso cosicché devo attendere fuori su una panchina che venga aperto. Ci sono circa 10°C e non è proprio un piacere stare all’aperto per quattro lunghe ore. Per fortuna il volo è in orario ed ora eccomi ad Urgench, accolto all’esterno dell’aeroporto da un ragazzo di nome Danyor. Si parte con una Daewoo Nexia attraverso strade ad ampio scorrimento con pochissimo traffico. Subito mi colpiscono i numerosi cartelli pubblicitari in russo o più spesso in caratteri bilingue, russo - uzbeko. I sovietici quando hanno conquistato queste terre hanno pensato bene di creare  a tavolino delle repubbliche indipendenti disegnando dei confini fittizi sulla carta e di fatto costruendo degli obbrobri etnici. In pratica i vari paesi facenti parte dell’Asia centrale sono spesso formati da milioni di appartenenti ad etnie di altri paesi comunicanti. Ecco perché qui abbiamo più turkmeni che uzbeki o a Samarcanda ci sono più tagiki. Talvolta Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan si incontrano così profondamente  che non si capisce davvero il motivo di questo disordine geografico. Il motivo però c’è  ed è sottile, meschino. Tutto questo è stato creato ad arte dai sovietici per impedire identità nazionali troppo marcate che avrebbero potuto costituire problemi, disordini. Eccoci arrivati a Khiva dove raggiungiamo prima l’hotel Malika dove sistemo le mie cose. Sono proprio nei pressi dell’Ichon Qala, l’entrata principale tra le quattro  che portano all’interno della città che è completamente circondata da un lungo muro. Le abitazione incontrate finora sono essenziali e non concedono nulla al superfluo, come accadeva prima della perestroyka in tutti i paesi del patto di Varsavia. Moltissimi sono i cartelloni che inneggiano al cotone del quale l’Uzbekistan ne è fiero produttore ed esportatore. Il presidente dittatore Karimov opera così un tentativo patetico di inorgoglire un popolo per un prodotto del quale alla fine è solo lui a guadagnarci per davvero. Già dai tempi dell’URSS questa era la coltura predominante nel paese e per far diventare l’Uzbekistan  un grande produttore, Stalin pianificò un enorme monocoltura utilizzando la sola acqua dell’Amu Darya, uno dei due immissari dell’enorme lago d’Aral. Ora il lago non è più quello di prima, dopo che altri terreni semidesertici sono stati dedicata a questa coltura. Mynaq, la città portuale sul lago che nel 1960 traeva ancora frutto del commercio di pesce ora si trova  a 40 km dall’acqua. Il prosciugamento ha devastato l’ambiente circostante. Il clima è cambiato, l’aria è più secca e le estati sono più calde. La salinità nella parte asciutta del lago è estremamente elevata ed il sale, la sabbia e la polvere vengono trasportate dalle tempeste di vento insieme ai residui dei prodotti chimici provenienti dalla coltivazioni. Nei canali d’irrigazione sono poi finiti defolianti, pesticidi che sono ritornati ancora nel fiume, unica fonte di acqua potabile. L’elenco delle malattie è terribile e sono respiratorie, cancro alla gola e all’esofago. Questa zona ha il tasso di mortalità infantile più alto di tutta l’ex URSS e muore un bambino su dieci oltre ad avere un numero altissimo di nascite deformi. Tutte le donne in cinta poi soffrono di anemia. Ora però eccomi pronto per la visita della città. Preferisco avvalermi della mia guida cartacea e fare con calma senza avere l’assillo della guida ufficiale e perciò comincio attraversando la porta principale di questa città che fino al XIX° secolo era terra di commercio e di schiavi. Intorno erano steppe desolate popolate da tribù selvagge. Il suo centro si è interamente conservato ed è quasi un museo a cielo aperto. Essendo ai margini del grande delta dell’Amu Darya è sempre stato importante fin dall’antichità anche se centro principale sulla via della seta era Urgench che però nel XV° secolo fu distrutta da Tamerlano. Passò il testimoni a Khiva che divenne così capitale della Corasmia. Subito a destra, la medressa (scuola coranica) di Muhammad Amin Khan, eretta nel 1850 e che ospita ora l’hotel Khiva. Davanti c’è il tozzo minareto dl Kalta Minor, decorato con piastrelle turchesi. Nelle intenzioni doveva diventare più alto del minareto Kalan di Bukhara, ma la morte dell’architetto ne frenò la baldanza. Proseguo lungo l’arteria principale dirigendomi verso la Kukhna ark, la residenza fortificata dei sovrani di Khiva, costruita nel XII° secolo. All’esterno c’erano l’harem, le stalle, la zecca, le caserme, la moschea e la prigione del Khan. Molto è in rovina e perciò si lavora di fantasia. Subito fuori la fortezza è lo zindon, la prigione, in cui sono esposte catene, armi, disegni di persone che venivano gettate dai minareti o fatte entrare in sacchi pieni di gatti selvatici. Di fronte alla Kukhna, dopo un ampio spiazzo, entro nella medressa di Muhammad Rakhin Khan, anch’essa abbellita da piastrelle blu. C’è un museo all’interno con oggetti del sovrano Rakhin che ebbe comunque il merito di arrendersi alla Russia solo nel 1873 dopo la caduta di Bukhara.  Nei pressi è il  museo della musica dopodiché, capatina all’interno del mausoleo di Sayid Alauddin che dicono risalga al 1310 quando Khiva faceva parte ancora dell’impero mongolo sotto la giurisdizione dell’Orda d’oro. Dopo la medressa di Qozi-Kalan sosto per il pranzo all’interno di una tipica yurta. Nel frattempo fuori, lungo la strada principale, si stanno svolgendo i festeggiamenti per un matrimonio con musica e balli. Prima che venga pronto il pranzo mi reco alla moschea Juma, con ben 218 colonne anche se spoglie che ne sostengono il soffitto. Salgo in cima al minareto, dalla cima del quale si ammira una bella vista sulla cittadina. E’ ora del pasto che comprende un ottimo nan (pane tipico locale, decorato al centro) e saporiti shashlyk, spiedini di carte di montone e poi ancora una sorta di involtino con carne tritata e cipolla che proprio non riesco a terminare. Buon tè e sigaretta per poi continuare la visita con il mausoleo di Pahlavon Mahmud, il più onorato di tutta la città. Ha un magnifico cortile con splendide piastrelle decorative. Era un poeta, filosofo e lottatore leggendario. Divenne il santo patrono della città. All’esterno  l’Islom hoja, un minareto che salgo ripido sino in cima. E’ il più alto della città con i suoi 45 metri ed è composto da diverse fasce decorative di piastrelle.  Ridisceso, visito il più bel museo di Khiva, con manufatti della Corasmia prodotti nel corso dei secoli. Sono un po’ stanco di camminare e mi concedo una sosta in una chaycona(sala da tè) dove sorseggio un buon tè verde. Riprendo la visita tornando fino alla medressa di Alloquli e quindi visito quella di Kultimurodinok. Molto bello sarà in seguito il caravanserraglio dell’Alloquli e il palazzo di Tosh-Khovli, al cui interno si possono notare le decorazioni più sfarzose della città. Bellissime cupole decorate e colonne in legno intagliate. Dovrebbe essere formato da 150 stanze che si affacciano su nove cortili anche se uno solo è consentito alla visita. Girovago ancora per un po’ fra questo museo a cielo aperto fino a tornare al mio albergo dove ceno. Sono stanco morto e di sera solo un po’ di televisione uzbeka con filmati di propaganda sul cotone. Il mattino seguente sveglia alle 6.30 e dopo colazione via attraverso il misero traffico composte da vecchie Lada, qualche carretto e le rare Volga russe. Lasciata la città entriamo subito all’interno dello sterminato Kizylkum, dove si viaggia in pratica ammirando null’altro che un deserto pietroso da landa desolata. Solo qualche cespuglio  per decine e decine di chilometri. Una sterminata steppa che scende giù verso sud nel Turkmenistan e verso nord nel Kazakistan. Attraversiamo il ponte sul famoso Amu Darya controllato da poliziotti, dato che in effetti per loro questa infrastruttura è davvero strategica. Subito dopo gli abitati si fanno ancora più radi e consentono al mio driver - guida di raggiungere spesso i 130 - 150 km. orari. Ad un certo punto si sosta in un luogo che consente la miglior vista sull’Amu Darya. Più lontano è il Turkmenistan. Godo per alcuni istanti di una sconfinata distesa desertica. Proseguiamo poi per questa arteria, inframezzata da rari villaggi che trascinano una vita regolata dal lavoro nei campi, specie di cotone. Le donne sono quasi tutte vestite con abiti lunghi colorati mentre gli uomini calzano spesso il colbacco. In lontananza ecco finalmente Bukhara, mentre Danyor mi fa notare la torre Kalan che si erge maestosa. La città offre inizialmente i soliti palazzoni dormitorio fino ad arrivare alla Labi Hauz, la piazza più famosa dove è situato il mio piccolo albergo, nel quale pernotterò le prossime due notti. Comincio subito la visita di questa celeberrima località proprio da questa piazza che ha una grande vasca al suo centro. Fino ad un secolo fa, l’approvvigionamento idrico era garantito da una rete di canali e da circa 200 vasche chiamate appunto hauz. L’acqua non veniva cambiata spesso e così Bukhara era famosa per le sue pestilenze. Pare che nel XIX° secolo, l’età media fosse di 32 anni. Ad est, dopo la statua di Hoja Nasuddin ecco la medressa di Nadir Divambegi, costruita originariamente come caravanserraglio. Il portale è piastrellato con motivi geometrici ed in alto due uccelli in posizione simmetrica. All’interno, come noto quasi sempre nelle scuole coraniche  è presente un commercio di tappeti, ceramiche, tutte per i turisti. Sul lato opposto è la khanaka di Nadir Divanbegi. Questi luoghi erano una specie di sala di contemplazione per i sufi e gli asceti erranti. Ora anche qui un vergognoso emporio di tappeti, testimonianza di come il comunismo sovietico abbia avuto poco rispetto per la religione di questi popoli. Al di là della strada, la medressa di Kukeldash, all’epoca la più grande scuola islamica dell’Asia centrale. Internamente sono presenti piacevoli decorazioni a stalattite, che per la prima volta ho ammirato in Iran, nella stupenda città di Esfahan. A Bukhara esistono dei grandi mercati coperti, con portici e cupole abilmente costruite per convogliare all’interno l’aria fresca. In essi venivano svolti commerci monotematici come cappellai, cambiavalute, gioiellieri. Ora si vende un po’ di tutto e specie ai turisti. Il pomeriggio sta terminando cosicché ritorno in albergo e aspetto Danyor con il quale mi reco al Rendevouz, un ristorante russo dove, dopo una zuppa russa Shanka, gusto un ottimo beef Strogonoff e bagnando il tutto con un vino rosso di Taskent, il Neva –Sharbat in verità senza pregio e struttura. La mia guida non beve perché musulmano e anche perché se dovesse essere fermato dalla milizia gli sequestrerebbero l’auto. Il giorno seguente proseguo la scoperta della città raggiungendo per prima la medressa di Ulughbek, nipote di Tamerlano. A causa della smania distruttiva di Gengis Khan, nulla è sopravvissuto dell’epoca preislamica e dei primi secoli del dominio arabo. Gran parte dell’architettura monumentale che si può ammirare a Bukhara, come a Samarcanda, si deve al genio di  “Timur”  e di uno dei suoi nipoti, appunto Ulughbek. Essi ebbero la felice idea di radunare artisti ed artigiani dei vari territori conquistati ed è per questa miscela di stili persiani, indiani ed arabi che si diede vita ad un epoca architettonica tale da rivaleggiare con quella di qualsiasi altro periodo storico del mondo intero. La caratteristica dell’architettura timuride si ammira nelle belle cupole blu – azzurre, spesso munite di nervature e con piastrelle smaltate. Anche i portali, imponenti, sono decorati con motivi geometrici di colore blu. Oltre che in Uzbekistan, questo genere di arte si può ammirare solo in Iran e in Afghanistan. La medressa che sto visitando, costruita nel 1417 è una delle tre fatte costruire dal grande condottiero. Un'altra famosissima fa parte del celeberrimo complesso del Registan nella mitica Samarcanda. Di fronte è l’altra di Abdul Aziz. Mi dirigo ora verso la zona più appariscente della città, dove risiedono i tre monumenti che più la caratterizzano: la moschea Kalan con il bellissimo minareto Kalan e la medressa di Mir I Arab. Sborsando la modica somma di 3000 sum mi aprono la porta che accede al minareto, per salirlo ed avere la chance di ammirare il panorama più bello della città. Costruito nel 1127 era probabilmente il più alto edificio dell’Asia centrale. Alto 47 metri, quando Gengis Khan lo vide ne fu così impressionato da risparmiarlo. Fu utilizzato come torre di avvistamento mentre gli emiri manghut invece vi gettavano dalla sua sommità i condannati a morte. Salgo i suoi 105 gradini ammirando una spettacolosa vista della vicina moschea Kalan e della medressa di Mir I Arab. In grado di contenere 10.000 fedeli la moschea fu addirittura adibita a magazzino durante il periodo sovietico. La medressa invece, rimasta in funzione dal XVI° secolo fino al 1920 fu riaperta da Stalin nel 1944 per cercare di ottenere il sostegno musulmano durante la seconda guerra mondiale. Purtroppo al momento non è possibile la visita perciò proseguo il mio itinerario puntando verso l’Ark (la fortezza). Percorro la grande Hoja-Nurabad che la costeggia fino all’entrata. Una volta residenza reale, era una sorta di città nella città. Già esistente nel V° secolo, nel 1920 fu bombardata dall’armata rossa. Purtroppo oggi il 75 % è composto da rovine ma alcuni edifici ospitano musei di vario interesse. Entra ed è subito la mosche Juma, risalente al XVII° secolo, il cui porticato è sostenuto da colonne di legno di sicomoro. Visito l’ampia corte per i ricevimenti e le incoronazioni, il cui soffitto crollò durante i bombardamenti. Nel cortile c’è un ragazzo che con piccoli attrezzi sta cesellando un piatto di rame. E’ affascinante ammirare la perizia con cui opera e gliene comprerò uno. Esco dall’Ark e dopo un intera mattinata di visite decido che è giunta l’ora di concedermi una pausa pranzo. Mi trovo nel Registan di Bukhara e noto un locale caratteristico con tavolini all’esterno. Ordino due spiedini di montone e nan. Due francesi mi raccontano di essere partiti dal Valle di Ferghana a est, dove notizie che ho preso prima della partenza da Internet davano focolai di tensione fondamentalista. Molte voci parlavano persino della presenza di Osama Bin Laden. Terminata la visita dei monumenti più significativi di Bukhara ho ancora del tempo a disposizione che impiego andando al mausoleo di Ismail Samani che però raggiungerò solo dopo essermi perso in un mercato locale. Il sito è il più vecchio della città. Egli è il fondatore della dinastia Samanide e l’edificio ha fini murature in terracotta che hanno resistito per quasi 11 secoli. Anche se risale ai primi secoli dell’era islamica, l’edificio presenta alcuni simboli zoroastriani come il cerchio inserito in un quadrato,  simbolo dell’eternità. Attraverso il Samani park ritorno al Registan e tramite strade secondarie alla piazza della moschea Kalan. Ho tempo per godere di questo luogo stupendo dopodiché torno al Lobi hauz concedendomi un buon tè seduto ad uno dei locali intorno alla vasca. Completerò in seguito la visita con il centro ebraico che si trova qui vicino. Forse già nel XII° secolo ebrei divennero figure importanti nel commercio locale. Nel ‘900 qui vi erano sette sinagoghe mentre ora solo una. Mi raggiunge Danyor con il quale mi reco ad un tipico ristorante uzbeko dove assaggio la zuppa borsch. Di secondo un piatto locale, una sorta di quaglia accompagnata da cavoli e patate. Il viaggio prosegue nel migliore dei modi, immerso in una miniera di cultura che però non stanca. Domani invece è in programma una giornata nella steppa. Attraverseremo zone quasi completamente desertiche, dove solo rari greggi di pecore e capre danno idea di qualche forma di vita. Di tanto in tanto vecchie fabbriche fatiscenti. Siamo circondati da una pianura sconfinata fino a che una volpe del deserto ci attraversa la strada e subito dopo una piccola carovana di Land Cruiser che improvvisamente lasciano entrano nella steppa. Dai finestrini escono dei fucili che sparano dei colpi. Sono dei pezzi grossi sauditi a caccia. Non si potrebbe farlo ma da queste parti basta pagare e i divieti diventano passaporti validi. Arrivato al villaggio di Yangarkazan ci addentriamo verso la steppa profonda fino a raggiungere un accampamento di yurte. E’ un campo organizzato dove i turisti possono provare l’esperienza di una nottata nelle tipiche abitazioni della steppa. Il sito è gestito da kazaki che hanno allestito queste strutture cilindriche in legno, smontabili e ricoperte di feltro. Non sono molto soddisfatto dell’escursione e decido di cambiare il programma chiedendo a Danyor di andare subito a Nurata invece che domani come previsto così si parte verso questo villaggio ad una sessantina di chilometri. Chiamata un tempo Nur, questo luogo aveva sempre avuto una posizione strategica fra terre coltivate e steppa. C’è una piccola moschea alla base di una collinetta dove sono visibili dei resti dei muri di cinta di una fortezza attribuita ad Alessandro Magno.

 

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