2017  CAMBOGIA

Un paese minato

Dopo un veloce “ultimo dell’anno”, alle 4.30 del giorno seguente, sono già in piedi. Alle 8.00 parte infatti, dall’aeroporto milanese di Linate, il mio volo Air France per Paris - Charles de Gaulle. A Parigi, il successivo volo per l’aeroporto di Guangzhou (Canton) in Cina è in pesante ritardo e mi getta nella più grigia apprensione. Rischio di perdere la coincidenza per Phnon Pehn e di dover rivedere tutto il programma precedentemente pianificato col tour operator locale, la 5 Oceans della capitale cambogiana. Per fortuna, in Cina riesco a salire veramente “al volo” sull’aereo in partenza per la Cambogia ma, purtroppo, il mio bagaglio non ce la fa e resta a terra. Incontro la mia guida-driver, Sovan, al quale illustro la situazione. Al “lost and found” dell’aeroporto, comunque mi hanno assicurato che la valigia sarebbe arrivata con uno dei due successivi voli previsti in giornata. Comunque, dopo 14 ore di volo, fuso e preoccupazioni sono ridotto ai minimi termini, anche se dentro me so che riuscirò a trovare la determinazione necessaria per l’inizio delle visite che, infatti, dopo la presa della camera al 22° piano del Tama hotel ha inizio alle 14.00 in punto dal celebre Palazzo Reale, con la Pagoda d’Argento, gli edifici più rappresentativi della capitale, con i loro tetti decorati dagli alti naga (serpenti sacri a più teste) che si stagliano nel cielo azzurro. Il complesso è immerso in giardini ben curati e templi pieni di reliquie. La costruzione più rappresentativa è la Sala del Trono, che si può ammirare solo dalle finestre esterne. Scenario ideale per la cerimonia dell’incoronazione e altri eventi importanti, è sormontato da torri molto belle. Il tetto è a sette livelli, in tegole arancioni, azzurre e verdi. I naga, posti agli angoli, costituiscono una protezione contro gli spiriti maligni. Sbirciando dentro, il soffitto è decorato con affreschi che rappresentano scene tratte dal celebre poema epico indiano Ramayana. Su entrambi i lati due file di lampade dorate con paralumi sostenuti da naga cerimoniali. Si possono solo intravedere, purtroppo, i due troni dell’incoronazione dorati. Quindi visito il palazzo del Tesoro che contiene le insegne reali e altri oggetti, fra i quali abiti di cerimonia e manufatti di discreto pregio. Il Padiglione di Napoleone è chiuso, perciò mi dirigo nel secondo cortile dove è la famosa Pagoda d’Argento. Prima però, ammiro per un lungo tratto, gli affreschi dai colori vivaci, lunghi 642 metri che raccontano l’epopea del Ramayana. Si dipanano in senso orario e iniziano con la nascita di Rama, proseguendo con il suo matrimonio con Sita, il rapimento di quest’ultima e la sua liberazione da parte dell’esercito delle scimmie. Entro ora nella Pagoda d’Argento, che prende il nome dalle sue 5329 piastrelle d’argento che rivestono il pavimento (ognuna pesa più di un chilo) ricoperte da un tappeto protettivo. All’interno ospita uno splendido Buddha di smeraldo, realizzato con cristallo baccarat verde. Una delle opere più stupefacenti è  il Buddha d’oro massiccio a grandezza naturale posto al centro del podio, e tempestato con 2086 diamanti e pietre preziose che facevano parte dei gioielli reali. La Cambogia, infatti, è una monarchia costituzionale, l'attuale capo di Stato è il re Norodom Sihamoni e il capo del governo è Hun Sen. In seguito alla caduta del prospero Impero Khmer, il paese subì per secoli l'influenza politico-militare dei paesi limitrofi, per poi diventare un protettorato francese nel 1863. Ottenuta l'indipendenza nel 1953, la Cambogia attraversò un periodo di instabilità e guerre con il coinvolgimento nel conflitto vietnamita, il colpo di Stato di Lon Nol, il regime di terrore dei Khmer Rossi e l'invasione vietnamita. A seguito delle elezioni del 1993, tenute sotto l'egida dell'ONU, è stata promulgata una nuova Costituzione: la Cambogia è attualmente una monarchia parlamentare indipendente basata su un sistema democratico multipartitico. Proseguendo con la vista della Pagoda, sono attratto dalla pesante portantina cerimoniale in legno dorato, lunga più di due metri che era usata per trasportare il re il giorno dell’incoronazione. Ritornato da Sovan, che mi aspetta fuori dal complesso, riprendo il City tour andando al Wat Phnom, nel quartiere francese. Col suo grande “chedi” (guglia di tempio buddista) bianco, è uno dei luoghi di svago più frequentati dagli abitanti di Phnom Pehn. Salendo la scalinata dei naga si arriva in cima alla collina dov’è il santuario, il Vihara. Alcune pitture murali, al suo interno, illustrano le storie dello Jataka (storia delle vite passate del Buddha). In verità, niente di che, nemmeno il panorama è apprezzabile perciò ridiscendo e, dopo aver ammirato il bell’edificio coloniale dell’Ufficio Postale, mi faccio portare al museo del genocidio di Toul Sleng, situato in un edificio che un tempo era la sede di una scuola superiore. Tra il 1975 e il 1979 venne trasformata nella famigerata prigione dei Khmer Rossi, denominata S-21 e all’interno dei suoi cancelli sono morte quasi 20.000 persone. Era un centro interrogatori soprattutto per le persone istruite e l’elite: medici, insegnanti, personale militare e funzionari statali. Fra le persone detenute qui ci furono anche bambini, alcuni massacrati molto piccoli per evitare che un giorno potessero vendicare i genitori. Il gruppo è stato costituito nel 1968 come costola dell'esercito popolare vietnamita nel Vietnam del Nord. Il partito è stato un partito rurale guidato da Pol Pot. Si alleò con il Vietnam del Nord, i Viet Cong, il Pathet Lao durante la guerra del Vietnam contro le forze anti-comuniste, da ultimo stringendo alleanza anche con Sihanouk. Dopo la conquista del potere conseguente al ritiro (per ragioni di politica interna) statunitense, i Khmer Rossi, pesantemente influenzati dal maoismo più estremista, si dedicarono alla "purificazione della Cambogia", massacrando qualunque appartenente alle classi più colte (l'uso degli occhiali era segno di acculturamento sufficiente per essere eliminato), distruggendo ogni legame familiare in quanto incompatibile con la creazione della nuova società cambogiana, e sopprimendo, nel volgere di mezzo decennio, un terzo della popolazione del paese. Visitando i quattro edifici, adibiti ad interrogatori, detenzione e uccisioni, si resta colpiti dalle cruente immagini affisse alle pareti, nel visitare le stanze con al centro letti con le catene sulle quali venivano vincolati i prigionieri, sottoposti poi a torture indicibili. Incredibili le celle nelle quali venivano sbattuti, il tutto nel complice silenzio dell’occidente. Si pensi che in pochi giorni tutti gli abitanti di Phnon Pehn dovettero lasciare la capitale per soddisfare l’utopico progetto di società contadina dei Khmer. La maggior parte di loro morì di fame o di stenti nelle campagne, incapace di concedersi il minimo della sussistenza. La storia della Cambogia è una delle più cruente dell’intero panorama mondiale, e ancora oggi decine e decine dei suoi abitanti saltano sulle mine lasciate da quei pazzi nelle immense campagne del paese. Senza parlare della corruzione dilagante che ha fatto e fa arricchire l’elite al potere e le multinazionali, disboscando senza ritegno l’immenso patrimonio forestale della nazione, dando concessioni per lo sfruttamento delle risorse minerarie che rimpinguano le tasche di pochi. Il turista, come me, queste cose non le vede, non le può vedere, ci si sofferma sulle cose belle, caratteristiche, ma la gente, qua, vive davvero in condizioni misere, quando ce l’ha con stipendi mensili che a noi servono solo per la ricarica dei telefonini. Il mondo è un coacervo di ingiustizie davvero raccapriccianti, e solo viaggiando ci si rende conto di quanto sia pressoché impossibile metterci mano e renderlo più vivibile per la maggior parte dei suoi abitanti. Lasciamo però ora la filosofia. Ormai il sole sta calando, e dopo una rapida occhiata al famoso Raffles hotel Le Royal, mi faccio lasciare sul lungofiume. Il Mekong in Cambogia è il re indiscusso dei corsi d’acqua e la passeggiata sulle sue sponde è d’obbligo, quando con il calar della sera le luci delle imbarcazioni che lo risalgono punteggiano la maestosità del suo fluire verso sud. Percorro anche alcune vie laterali, ridondanti di negozi all’aperto, di decine e decine di locali, alcuni davvero spudoratamente adibiti al soddisfacimento delle voglie più oscene dei turisti occidentali, che con pochi dollari affittano letteralmente la bambina, o il bambino di turno. Mi sento a disagio in mezzo a tanto squallore, e  ritorno sul lungofiume. Ormai è ora e mi dirigo al ristorante che ho scelto per la mia prima cena cambogiana. E’ il Titanic, un famoso locale vicino al porto, dove ordino un cambodian fish amok, il piatto più famoso della cucina khmer, un filetto di pesce fresco, in questo caso avvolto in foglie di banana. Da bere, la celebre Angkor beer. Bene, la stanchezza mi fa quasi chiudere gli occhi, non ho nessuna voglia di tornare in hotel a piedi, anche perché è un po’ distante, così prendo un tuk tuk, una sorta di taxi a tre ruote che con due dollari mi porterà al Tama, o almeno dovrebbe. Infatti sbaglierà la strada più volte e mi troverò costretto, oltre ad indicargli tre volte il percorso corretto, a tollerare la sua condotta stradale a dir poco scriteriata, viaggeremo in contromano per più di 500 metri in una delle più trafficate arterie della capitale, ma per fortuna giungo sano e salvo in albergo. Il mio pensiero però è tutto rivolto al bagaglio, lo ritroverò domattina all’aeroporto? Durante la notte riuscirò a recuperare in parte le forze e, al mattino, alle 7.00 sono già alla reception all’appuntamento con Sovan. Sembra che il bagaglio mi stia aspettando, si sono informati al lost and found, e così ci dirigiamo all’aeroporto per ritirarlo. Nonostante non sia molto distante, il traffico si dimostra micidiale. Ci sono molti lavori in corso, un inquinamento che imporrebbe la mascherina al viso, ma devo resistere. Dopo il ritiro ci dirigiamo verso l’altro versante della città, quello di nord est, immergendoci da subito nel vero panorama cambogiano, fatto di piccoli centri che si affacciano sulla strada principale, dove sono le piccole attività commerciali, tutto un brulicare di persone che trascorrono qui la maggior parte della loro giornata. Ogni tanto si aprono grandi pianure coltivate a riso e bufali d’acqua che si muovono nel loro ambiente naturale, i colori comprendono tutta la gamma del verde e, di tanto in tanto il Mekong, la madre di tutti i fiumi.  Ma, all’improvviso, m’assale un timore, prima nascosto e che ora emerge travolgente. Fra un po’ giungeremo al mitico mercato di Skun, lo spider market. Per chi non lo sapesse, questo è uno dei mercati più incredibili del mondo, dove venditori ambulanti e bancarelle vendono grossi ragni fritti agli automobilisti di passaggio. Il ragno fritto in Cambogia è considerato una vera prelibatezza e molti cambogiani arrivano da lontano per poter acquistare qua il loro piatto preferito. I ragni vengono catturati nella foresta e nei campi, oppure nelle buche dove vengono allevati, prima di essere privati delle chele velenifere e di essere fritti assieme a varie erbe aromatiche. Originariamente il consumo dei ragni fritti a scopo alimentare iniziò semplicemente per fame, ma successivamente, tra i cambogiani, essi sono diventati una leccornia molto ricercata. Al mercato dei ragni in Cambogia è possibile trovare altre specialità, come ad esempio piccoli uccelli cotti praticamente interi. Le altre specialità vendute includono grilli fritti ed altri insetti conditi con peperoncino ed altre spezie. Ci si chiederà il motivo della mia apprensione. Ebbene, prima di partire ho manifestato l’intenzione di provare questa “prelibatezza” e persino di farmeli mettere addosso da vivi. Ma un conto è dirlo… e un conto è farlo. Ormai eccoci arrivati. Scendo dall’auto e comincio a girovagare fra le bancarelle. In effetti c’è tutto quello di cui si parlava, e persino gli scorpioni fritti, vicino a un vassoio dal bordo rialzato che ne contiene anche una ventina di vivi. Dopo aver adempiuto al dovere fotografico però, ora è giunto il momento fatidico. Ne sarò capace? Titubante punto una venditrice col vassoio di ragni fritti impilato a mo di cono raccapricciante. Ne chiedo uno e, per un dollaro, me ne infila due in un sacchettino. Ritiro e mi allontano. E ora?  Ho in mano una bustina che fa chiaramente intravedere il contenuto. Persino nell’aprirla provo una certa ripugnanza, ma perbacco devo farlo, sono un viaggiatore io, ne ho fatte tante e devo vincere anche questa battaglia psicologica! Ne afferro uno in mano e gli strappo una zampetta. L’avvicino alla bocca e ce la infilo. Comincio a masticare, senza ingoiare, ma in fondo il sapore non è male, assomiglia lontanamente a quello delle patatine, anche se non possiede un gusto ben avvertibile, o forse sono io che non lo voglio percepire. Strappo anche le altre e, dopo una masticata meno schizzinosa le mando giù. Ma non mi sento di mangiare il grosso corpo centrale, e nemmeno il secondo ragno fritto. Butto in un contenitore ciò che rimane, soddisfatto di essermi tolto il pensiero. Ora però viene il momento della seconda esperienza, ben più agghiacciante. Vado alla ricerca dei ragni vivi, ma sembra che non ce ne siano. Sono quasi contento, non ne trovo. Che colpa ne ho se non ce sono? Se ci fossero stati!!! Ma, proprio quando stavo sperimentando quella strana sensazione di mezzo gaudio e mezza delusione, ecco che noto una venditrice di ragni fritti che si dirigi verso una bancarella col suo bel vassoio “conico”. Nell’altra mano, tiene un secchio, mi avvicino e vi guardo dentro. Credo che nel mondo animale non esista una visione più spaventosa di quella. Ci saranno stati una ventina di “mostri” pelosi, grandi come una mano e con un corpo centrale da far bloccare il sangue nelle vene. Ho sentito chiaramente il terrore avvolgermi il corpo, il respiro che mi mancava. Ho girato la testa dall’altra parte, ma poi ho deciso di riguardare per fotografare, e persino col teleobbiettivo. Attraverso la fotocamera è come se il terrore mi strisciasse sulla fronte da come li vedevo enormi, spaventosi. E ora? Il pensiero di tenere in mano un coso simile non lo tengo nemmeno in considerazione! Ma, diamine, sono mesi che avrei voluto fare questa esperienza, e ora mi tiro indietro? Senza pensarci più chiamo Sovan e chiedo di intercedere con la venditrice. Me ne faccio mettere uno nella mano destra e due sulla camicia, uno a sinistra e uno e destra, chiedendo al mio driver di fotografarmi per immortalare il momento. Il ragno occupa interamente tutta la mia mano e avverto il suo leggero movimento, quasi vellutato, mentre quello nella parte sinistra della camicia sta salendomi verso il viso e devo apporre l’ostacolo della mia mano sinistra per evitare per mi scorazzi sulla faccia. Saranno cinque minuti assolutamente incredibili e, alla fine, la donna me li riprende, quelli sulla camicia erano come avvinghiati sul tessuto. Non riesco a crederci ma l’ho fatto, e non è stato nemmeno così spaventoso. Sono felice. Ripartiamo, lasciando alle spalle questo mercato delle follie, dopo aver acquistato un po’ di banane da gustare durante il lungo tratto che ci separa da Kratie, la destinazione finale della giornata. Il programma prevede però che prima si salga fino a Kampie dove, con un po’ di fortuna potrei togliermi un'altra grande soddisfazione, l’avvistamento dei delfini del Mekong che vivono in un tratto del fiume lungo 190 km, da qui fino ai confini col Laos. Sono più simili ai marsuini che ai delfini marini, hanno la testa arrotondata. E’ raro che seguano le barche come i loro cugini marini e non fanno salti sull’acqua. Con una guida locale parto con la barca che, in breve, raggiunge il centro del fiume. Per tutta l’ora dell’escursione ci saranno solo altre tre barche per avvistarli e ogni volta che li si vede, si accendono i motori e si cerca di recarsi in zona, poi rispegnendoli per non disturbarli. Li avvisterò decine di volte, in varie condizioni, da vicino, da lontano, in coppia e posso affermare di avere goduto di un esperienza emozionante, in un ambiente naturale che riempiva l’anima. Contento di come si è sviluppata la giornata e del meteo, assolutamente ideale, nel ritornare a Kratie ne approfitto per salire al tempio di Phnom Sambok. Dopo una ripida scalinata (361 scalini) giungo ai vari edifici monastici sparsi sui tre livelli della struttura. Ci sono celle per la meditazione sparse sulla collina, insieme alle abitazioni dei monaci e, qua e la, dei macachi dai quali bisogna stare attenti perché ladri patentati. Comunque fanno una cornice curiosa al complesso che, in se stesso, ha ben poco da offrire dal punto di vista architettonico, artistico. La giornata è terminata, raggiunta Kratie, prendo possesso della mia stanza al Tonlé guesthouse, mi cambio per la cena e mi dirigo verso il lungo Mekong, al Jasmine boat restaurant dove gusto un filetto di pesce di fiume con una Cambodia alla spina. Nel tornare in albergo però, sento che qualcosa nel fisico non va, saranno le avvisaglie di quella febbre che domani notte mi tormenterà il sonno. Non si può stare in auto per tutto il tempo con l’aria condizionata a palla, è una cosa che non sopporto. Ormai ho preso le misure della Cambogia e sono pronto a concedermi tutto quello che ho preventivato… e anche di più. Infatti, prima di congedare Sovan gli ho fatto presente il mio progetto di domani, che sarebbe di apportare una modifica al programma. Lo so che in Asia è difficile ottenere dalle guide una cosa del genere, ma la corruzione è un cuneo che sa aprire anche il calcestruzzo e una decina di dollari hanno saputo convincerlo ad accettare di partire prima, alle 5.00, per raggiungere Stung Treng a nord e, invece che deviare subito a est verso la lontana destinazione della giornata: Banlung, salire ulteriormente fino al confine col Laos e tentare di raggiungere delle cascate indicate sulla mia guida come molto belle, le Sopheak Mitt. Tutto pare marciare nella direzione giusta, ma lui queste cascate non le conosce e deve chiedere informazioni così, alla fine vengo a sapere che per raggiungerle è necessario almeno mezza giornata tra barca e moto. Ho fatto un errore, non ho pensato di ottenere maggiori notizie su di loro, fidandomi di quel poco scritto sulla mia guida. Peccato, davvero, ma già che sono qui, posso almeno concedermi la seconda escursione per avvistare i delfini del Mekong, e questa volta in un ambiente unico e incontaminato. Parto con una barchetta lunga e stretta dove è più facile ribaltarsi in acqua che stare seduti in sicurezza, risaliamo il fiume fino a un luogo chiamato Anlong Cheuteal, la cornice naturale è imponente, sono davvero fuori dal mondo e in equilibrio instabile in attesa di qualche avvistamento che alla fine giunge. Ne vedrò meno che a Kampie, ma la soddisfazione sarà maggiore, più autentica. Ritornato all’approdo, ripartiamo raggiungendo nuovamente Stung Treng e svoltando verso la parte più autentica del paese, il lontano est. Come un cretino ho pensato che il mio fisico fosse ormai temprato a tutto, da tanti viaggi, e non ho pensato di far chiudere l’aria condizionata così, una volta giunti a Banlung, e arrivati al lago del cratere Yeak Laom, ho pensato bene di concedermi un bagno nelle sue acque e, alle prime bracciate, ho subito avvertito dei brividi di freddo, avvisaglie di qualcosa di peggio. Il luogo però è magnifico, abbracciato da una foresta incontaminata. Largo 800 metri e profondo 50, è circondato da un sentiero di 3 km e gestito dalla comunità chunchet dei Tampoun, una delle numerose minoranze etniche dei dintorni, quasi tutte animiste. C’è il tempo anche per la visita alle Chha Ong falls dove potrei fare il bagno alla base delle cascate, ma me ne guardo bene e decido di andare al mio The Courtyard Guesthouse e tentare di rimettermi in sesto. La maggior parte dei turisti viene qui per fare trekking nei villaggi e nelle colline intorno, la cittadina in se stesso offre poco. Domani ho infatti in programma un’intera giornata con una guida locale che mi porterà a conoscere qualche minoranza etnica, ma la nottata sarà davvero pessima e, avvolto nelle coperte, con qualche linea di febbre e raffreddore, ho paura di quello che mi aspetterà. Per fortuna, prima di partire mi faccio portare in farmacia dove acquisterò un prodotto a base di paracetamolo e dell’aspirina effervescente con i quali cercherò di combattere l’indisposizione. La prima visita è al villaggio di Kran dove vivono i Tampoun, animisti. Credono negli spiriti e celebrano il culto degli antenati. Cinque volte l’anno sacrificano maiali in favori degli spiriti, prima della semina, nel momento del raccolto etc. Credono nello spirito della foresta, dell’acqua e in un entità superiore più importante di tutti. Le abitazioni, su palafitte, sono in legno e generalmente plurifamiliari, nel senso che hanno due o tre spazi abitativi per più famiglie imparentate fra loro. Spesso se ne incontrano di molto più piccole, generalmente per qualche ragazzo che vuole avere la sua libertà. Non esistono che in pochi casi le toilette, la gente fa i loro bisogni all’esterno nella foresta. C’è un capo del villaggio, generalmente un anziano e una scuola ogni 4-5 villaggi. Hanno una loro lingua e non è infrequente che a poca distanza, nel villaggio di un'altra minoranza, se ne parli un’altra. Visito in completa serenità, bisogna essere accompagnati da una persona conosciuta e vivo un esperienza assolutamente emozionante, in una tranquillità invidiabile. Ci spostiamo quindi in un luogo vicino con l’auto dove, lasciato il mezzo, proseguiamo a piedi io e la guida sino in cima ad una collina dove l’occhio spazia giù nella pianura ricca di coltivazioni. Emerge una vasta piantagione di caucciù, i politici qui si sono venduti tutto ciò che potevano e la foresta vergine è ormai un lontano ricordo. Le multinazionali si sono portate in occidente tutto il legno duro e il paese rimane quasi completamente deforestato, a nulla le raccomandazioni dell’Onu per frenare questa drammatica tendenza. Continuiamo fino alla cascata di Katieng dove sono testimone, nel ruscello a monte, del bagno di due elefanti. Gli addetti, senza troppe preghiere, li raschiano con pesanti spazzoloni e, per farli procedere dove vogliono, hanno un’asta con in cima un rampone che li forza ad obbedire. Per chi vuole si può anche salire in groppa e farsi portare in giro alla scoperta della foresta dei dintorni. E’ ora di pranzo e ci sediamo a un tavolino all’aperto ordinando una semplice noodle soup, è calda e credo che non ci sia nulla di meglio per combattere le mie poche linee di febbre. Un buon tè conclude il semplice pasto. Mi sento un po’ meglio ma non voglio strafare e così, alle  Ka Chhang waterfalls, preferisco vincere la mia voglia di tuffarmi sotto le cascate. Il viaggio è ancora lungo e non voglio rovinare tutto con ricadute pesantissime. Terminiamo la giornata con la visita ad un villaggio Prou. Anche qui l’atmosfera è serena, tranquilla, molti poltriscono sulle amache tra i pali delle palafitte. Non bisogna pensare che queste costruzioni “sopraelevate” vengano costruite per ripararsi dalle possibili inondazioni o dagli insetti, ma solo per avere uno spazio riparato, sotto casa, da adibire agli animali, a momenti di relax e di gioco, o come spazio per riporvi gli oggetti di lavoro. Una donna sta approvvigionandosi di acqua ad un pozzo, un bambino sporge la sua curiosa testa dall’interno della sua abitazione per osservare quello strano bianco che passeggia nel suo villaggio, un altro gruppo di bimbi gioca sulle amache e degli adulti conversano amichevolmente seduti in circolo nei pressi dello store, presente in quasi tutti i villaggi, dove si vendono oggetti agricoli, sementi, cibarie. Di certo l’atmosfera non dovrà essere stata la stessa nel 1975, quando i Khmer rossi mossero da queste parti, uccidendo, violentando, minando. Bene, è stata una giornata piacevole, non certo un trekking come m’aspettavo nella foresta alla ricerca di villaggi e etnie sperdute, ma forse è stata la mia buona stella ad evitarmi un supplizio troppo pesante per il mio fisico debilitato. Una buona e lunga dormita sarà il toccasana appropriato per rimettermi in forma e infatti, l’indomani, mi sento già meglio. L’aria condizionata l’ho fatta spegnere e in questa lunga giornata di trasferimento so già che ritornerò il Daniele di sempre. Qualche momento di abbiocco sdraiato sul sedile posteriore del pulmino e altri momenti impegnato ad osservare la vita locale che scorre lungo la strada nell’estremo nord del paese, a ovest di Stung Treng, una zona poco frequentata dove Sovan guida in tutta tranquillità, spesso oltrepassando l’assurdo limite di velocità che inchioda l’automobilista ad una andatura massima di 60 km/h. E qui non si scherza, ci sono pattuglie che fermano e che multano pesantemente. Vaste risaie, bufali che scorazzano in libertà. Verso le 16.00 giungiamo a destinazione, a Siem Reap. Acquistato il biglietto d’ingresso

alla zona templi di Angkor, ci dirigiamo verso quello in programma oggi: Banteay Srei. Angkor è il sito archeologico più importante della Cambogia ed uno dei più importanti del Sud-est asiatico. Nel periodo compreso fra il IX ed il XV secolo ospitò la capitale dell'Impero Khmer, di cui fu il centro religioso e politico. La maggioranza dei templi più noti e visitati è concentrata in un'area di circa 15 km per 6,5 km a nord di Siem Reap, ma l'area totale definibile come Angkor è molto più vasta. Situato a 35 km da Siem Reap, Banteay Srei è costruito in arenaria rosa e vanta tra le decorazioni più elaborate che si incontrino fra tutti i templi. Le architravi, i frontoni, sono tutti splendidamente abbelliti da motivi floreali e bassorilievi raffiguranti episodi del Ramayana. Presenta tre muri di cinta, un fossato interno e una fila di tre torri. Come prima esperienza di Angkor non c’è male; questo sito dicono tutti che vale da solo un viaggio in Cambogia. Comunque è già tardi, il sole se n’è andato a riposare dietro l’orizzonte ed è ora di prendere possesso della mia stanza al Traveller Angkor, dove resterò ben quattro notti. Siem Reap, un tempo sonnolenta e dimenticata, è la località più prospera della Cambogia dovuto ai milioni di turisti che ci vengono ogni anno. Pullula di ristoranti e hotel di alto livello e vi si può trovare praticamente ogni cosa. E’ una città dei divertimenti che allieta il turista proveniente dalle decine di templi sparsi nei suoi dintorni. Faccio una passeggiata allo scopo di individuare un ristorante che meriti e, in effetti, ce n’è un infinità. Ne scelgo uno non troppo distante dal mio alloggio, il Chanrey tree, che propone cucina khmer, dove gusto un rosted khmer chicken con una bottiglia di acqua minerale. Ho già organizzato per la visita dei templi optando per un tuk tuk. Appena arrivato mi sono subito messo d’accordo con un driver che, domattina, mi verrà a prendere all’albergo alle 5.30. La mia intenzione è infatti di iniziare dal più celebre di tutti i templi, Angkor Wat, dove vorrei assistere allo spettacolo del sunrise dietro le sue torri. Quando giungiamo al sito, l’indomani, sono già presenti centinaia e centinaia di turisti che si incamminano verso l’interno del primo recinto in attesa del sorgere del sole. Purtroppo è nuvoloso e non si riuscirà a godere dello spettacolo. Comincio perciò la visita del tempio. Dominato da cinque torri a forma di pannocchia, questo capolavoro di architettura khmer, consacrato nel 1150 al dio indù Visnù, è stato completato in 30 anni. Si entra da ovest, tramite una spettacolare strada selciata che attraversa un fossato largo 200 metri. Non ci si può credere quanti visitatori ci siamo e già provo un senso di fastidio fisico. La cosa che mi ha colpito maggiormente, oltre naturalmente al colpo d’occhio generale, sono gli stupendi bassorilievi del terzo e secondo recinto. Sono 700 metri di muri con rilievi estremamente elaborati. L’osservazione approfondita richiederebbe davvero ore ed ore, e sarebbe anche necessario l’aver penetrato a fondo, opportunamente, la storia del Ramayana, del pantheon brahminico e di tutto quel mondo così particolare. Ammetto di non avere queste competenze e mi limito ad ammirare la finezza di alcuni lavori, davvero straordinari. Superati i primi due recinti si sale ai livelli superiori fino al secondo livello della piramide. I muri del cortile sono decorati con una pregevole collezione di 1500 apsara (danzatrici khmer) scolpite. Ma ci sono davvero troppi turisti, è come stare all’interno della Cappella Sistina in piedi ad ammirare gli affreschi parietali. E sono solo le 6.30!! Avrei preferito dedicargli più tempo delle due ore in cui sono rimasto, tuttavia mi rendo conto che la visita non si sta delineando come me la sarei aspettata, troppo rumore, troppo stress, troppe persone. Ritorno dal driver e proseguo con il tempio successivo, quello di Phnong Bakheng, il primo monumento eretto nella zona di Angkor. Ci si arriva dopo una lunga camminata su un sentiero battuto, in salita, immersi nei suoni della natura. Vale la pena visitarlo per il panorama di cui si gode, ma le condizioni della struttura sono precarie. Il tempio piramidale si sviluppa su cinque livelli ed è costruito su una collina naturale  alta 67 metri con scalini e terrazze scavate nella roccia. Ridisceso, proseguiamo per il famoso Angkor Thom, il fulcro architettonico di Angkor, che comprende tre templi: il Baphuon, il Phimeanakas e lo spettacolare Bayon da cui comincio, uno degli edifici più straordinari, con le sue decine di torri erose e scolpite con numerose, colossali immagini del volto sorridente del bodhisattva (essere illuminato che pospone il suo ingresso nel nirvana per aiutare altri nel loro cammino verso la salvezza) Lokesvara. Invece di un enorme piramide centrale, il tempio è un fitto gruppo di torri, con quelle del santuario che si innalzano nel centro del complesso. Davvero una visione spettacolare. Quindi mi dirigo al Baphuon, risalente all’XI secolo e riaperto di recente dopo 50 anni di restauri, una vera e propria montagna di pietra, austera e minacciosa. Vi si accede attraverso una strada rialzata in arenaria lunga 172 metri al termine della quale si erge l’imponente piramide centrale che si articola in cinque ordini, divisi dalle gallerie in tre recinti. Ciascuna galleria presenta degli elaborati gopura ai quattro punti cardinali. Allineata  con il muro nord del Bayon ammiro ora la Terrazza degli elefanti, che fungeva da base per la sala del ricevimento reale e da piattaforma di osservazione sull’area circostante. La terrazza prende il nome dai bassorilievi di elefanti che si dipanano per circa 300 metri sul lato est. Tre elaborate serie di scalinate conducono alla terrazza più alta. Ultima visita della mattinata sarà il Phimeanakas; su tre ripidi livelli, di forma rettangolare è circondato da un piccolo fossato. Le scale che portano in cima al tempio sono ripide e non vi si può accedere perciò non mi resta che ammirarlo dal basso circumnavigando la struttura. Il sole ora splende nel cielo. Pausa pranzo in un luogo di ristoro nei pressi e poi continuo le visite con lo straordinario tempio di Preah Khan che fu allo stesso momento tempio, monastero e università, dando lavoro a più di un migliaio di insegnanti e a un personale ausiliario di 97.000 persone. La cosa che lo caratterizza maggiormente sono alcune sue parti, letteralmente inghiottite da giganteschi alberi di kapok. Il complesso è circondato da una cinta muraria e da un fossato con gopura e strade rialzate in ciascun punto cardinale. Il santuario centrale, nel cuore del tempio, contiene uno stupa a forma di cupola. Bella la parte orientale del terzo recinto che contiene una terrazza circondata da colonne scolpite con apsara danzanti. L’intero complesso è letteralmente circondato dalla foresta e offre colpi d’occhio davvero superlativi. Proseguiamo fino al tempio d’acqua di Neak Pean con la sua torre che sorge solitaria al centro di un grande stagno. Secondo la teoria più diffusa, doveva rappresentare il mitico lago himalayano le cui acque avevano poteri miracolosi. Il successivo tempio è il Ta Som, duramente provato dal tempo e dalla giungla. Bello il gopura  con una torre con i volti scolpiti da cui si giunge alla cinta muraria centrale. Il santuario in sé  è praticamente un'unica torre cruciforme in rovina. Infine ci dirigiamo al Mebon orientale, eretto nel 953. Si entra dal gopura orientale che conduce al recinto esterno costeggiato dalle rovine di una delle sale per la meditazione. Il gopura occidentale presenta un rilievo ben conservato che rappresenta Visnù nell’incarnazione di uomo leone che divora i demoni. Sono stanco morto, la giornata si è delineata come avevo programmato, mi rimarrebbe ancora un po’ di tempo, ma preferisco tornare in albergo e tentare di abbinare anche la cena allo spettacolo di danze Apsara che ieri sera ho pensato di prenotare nel ristorante Koulen. E infatti vi riuscirò. Sistematomi nell’abbigliamento, mi faccio accompagnare al locale da un motociclista. Prima dello spettacolo è prevista la cena a buffet e verso le 20.00 inizia lo show. Nessun viaggio in Cambogia può dirsi completo se non si assiste almeno una volta allo spettacolo delle danzatrici che si esibiscono nell’antica arte della danza apsara.. Indossano luccicanti tuniche di seta, corpetti con lustrini. Durante la danza, ciascuna posizione ha un suo specifico significato simbolico. Un tempo, c’erano circa 3000 danzatrici apsara, che le eseguite solo per i re. Questa arte veniva insegnata solamente alla corte reale e così poche ballerine sopravvissero allo sterminio dei Khmer rossi. Il genere andò molto vicino all’estinzione. Trascorrerò una stupenda serata, dopodiché me ne ritornerò in albergo col tuk tuk, in mezzo ad un traffico assordante di gente e mezzi. L’indomani mattina ho una sorpresa inaspettata. Scendo come pattuito giù in strada alle 5.30 ma il mio driver non si presenta, nonostante debba ancora pagargli la giornata di ieri. Il motivo è più che evidente, diluvia a catinelle. Che disdetta! La giornata sarà irrimediabilmente rovinata da un meteo impietoso che solo a tratti darà tregua. Nel pomeriggio, ormai deluso dall’essere impossibilitato a visitare altri templi della vasta zona archeologica, mi viene un illuminazione. Tramite un’agenzia organizzo un volo in mongolfiera. Mi vengono a prendere in albergo e, insieme ad altre tre persone, mi portano al campo volo. Purtroppo la dea sfortuna quest’oggi ha deciso di mettermi i bastoni fra le ruote e torna a piovere pesantemente. Comunicano all’autista che è impossibile l’escursione e ce ne torniamo scornati ai rispettivi alberghi; sono così deluso che mi concederò per cena solo una pizza. Una breve passeggiata per le vie centrale e me ne vado a letto. Domani è in programma la navigazione sul lago Tonle Sap, non voglio nemmeno prendere in considerazione una seconda giornata come quella odierna e, per fortuna ciò non accadrà, nonostante una pioggia battente durata quasi tutta la notte. Con Sovan raggiungiamo il villaggio di palafitte di Chong Khneas sulla costa più vicina a Siem Reap. Al porticciolo mi aspetta la guida locale con la cui barca si parte lungo una prima parte a mo di fiordo, dove sono presenti molte case su palafitte. Prima di sfociare nel vero e proprio lago facciamo una sosta ad una crocodile farm, alcune palafitte terribilmente turistiche dove vengono allevati coccodrilli che poi si tramuteranno in borsette e portafogli per turistoti dalla dubbia coscienza. Ci resto per il tempo tecnico, risalendo poi in barca sotto un cielo plumbeo e sfociando poco dopo nel vero e proprio lago, il grande lago che domina la mappa della Cambogia. La maggioranza dei suoi abitanti sono pescatori, perlopiù apolidi, di razza vietnamita, che sono qui da decenni nonostante siano malvisti dai khmer locali. Quasi tutti vivono in condizioni di semi povertà e il loro mezzo di sostentamento è costantemente minacciato dal governo che ha garantito grandi concessioni di pesca a ricchi uomini d’affari. I turisti forniscono una nuova fonte d’entrate, ma non per tutti. Mentre attraversiamo il lago, diretti a nord, il tempo migliora e il sole ora sta già squarciando le nuvole prendendo possesso del cielo. Il clima è ideale; giunti sull’altra sponda, ecco lo straordinario villaggio su palafitte di Preak Toal. In mezzo ad una vegetazione galleggiante, sfrecciano imbarcazioni lunghe e strette con mercanzie varie, canoe con giovani scolari dalle candide uniformi bianche. Intorno a me gira un microcosmo unico, in un ambiente naturale da mozzare il fiato. Nessun turista, ogni cosa è vera, assolutamente autentica. Mi registro salendo su una palafitta che funge da ufficio generale e poi si riparte per l’escursione vera e propria, nella vicina riserva della biosfera dell’Unesco, un santuario per la tutela di numerose specie di animali acquatici che ne comprende tre minacciate: il pellicano grigio, il marabù maggiore asiatico e l’anitra alibianche. La mia guida, con una imbarcazione più piccola, si inoltra all’interno di un habitat suggestivo facendosi strada tra vegetazione galleggiante e inoltrandosi in sentieri d’acqua bordati da un mondo vegetale sempre diverso. Sono rapito dal continuo volo di uccelli che tento di identificare. Ci sono anitre, moltissimi pellicani grigi, egrette e cormorani. Giungiamo nei pressi di una struttura per l’avvistamento, una torre in cima alla quale è presente un potente binocolo che consente una straordinaria visione di una porzione di riserva ricchissima di fauna avicola. La giornata è magnifica. Ritorniamo al villaggio ai margini della riserva dove pranzo con pesce di lago fritto e quindi si riparte riattraversando il lago in direzione di Chong Khneas dove decido di inoltrarmi all’interno del villaggio per osservare la vita che vi si svolge. C’è una notevole sporcizia, ma sembra che, in generale, sia una caratteristica che si riscontra un po’ ovunque, nei vari agglomerati locali. Sacchetti e bottiglie di plastica sparsi dappertutto, rifiuti di vario genere, una puzza di urina e peggio aleggia nell’aria respingendo e consigliando di fuggirne. Giunto in albergo, e dopo una salutare doccia mi preparo per uscire. Una breve passeggiata prima di optare per un ristorante all’aperto dall’aspetto invitante, il BBQ lovers dove ordino un eccellente red snapper (mi pare un dentice) alla griglia con patata al cartoccio, bagnato da una Angkor beer. Il viaggio vero e proprio è terminato, domattina ripartiremo verso la cittadina di Battangam nel nord ovest del paese. Lungo la strada non è prevista alcuna sosta, ma voglio ugualmente provare ad andare ad Ang Trapaeng  Thmor, facendo fare a Sovan una deviazione verso nord di una ventina di chilometri. Spero di effettuare una escursione nella riserva omonima che è rifugio della rara gru antigone, una specie avicola in via di estinzione. Purtroppo, anche in questo caso, mi va male. Nonostante avessimo rintracciato la base per le visite, dopo una telefonata informativa del locale personaggio, vengo a sapere che sono escursioni da prenotarsi direttamente e con permesso, a Siem Reap. Peccato. Ritorniamo sui nostri passi raggiungendo nel primo pomeriggio la nostra destinazione. Qui c’è ben poco da fare, Battangam è una località carina, ma nei dintorni non vi è nulla che mi faccia montare l’entusiasmo. Dico a Sovan di recarsi alla bamboo train, che si rivela una turistata ridicola, anche se curiosa e originale. Percorre un binario in disuso, appena fuori città e viene utilizzata per trasportare persone, bestiame e beni, oltre a un numero crescente di turisti che, seduti su una piattaforma fatta di bamboo, sfreccia sui binari grazia a piccoli motori. Mi vergogno un po’ ma, tant’è. Spero di ottenere qualche emozione al tempio di Phnom Sampeu, anche se è più noto per il suo tragico legame con i khmer rossi che ne trasformarono gli edifici in una prigione dove perirono un gran numero di persone. Ci si può arrivare a piedi lungo una salita impervia, ma io preferisco farmici portare in moto da un locale. Giunto sul luogo visito i vari edifici fra cui il vihara del Preh Jan, con accanto uno stupa dorato. Le pittore murali del santuario sono obbiettivamente di fattura più che dilettantesca e, dopo aver ammirato il bellissimo panorama che si gode da una terrazza lì vicino, e bene all’erta nei confronti dei macachi che non vedono l’ora di derubare qualcuno di qualcosa, mi faccio riportare giù. In effetti la mia speranza era quella di avere una esperienza adrenalinica nella sottostante bat cave. Purtroppo, anche in questo caso, sarà un emozione ridotta. L’entrata alla grotta è impossibile perché si trova a mezza collina, perciò non mi resta che attendere, come decine e decine di altre persone, che calino le tenebre e ammirare l’uscita di centinaia di migliaia di pipistrelli che disegneranno in cielo una striscia lunghissima, perdendosi poi all’orizzonte. Al paragone, ciò che ho provato all’interno di una grotta similare in Guatemala, con migliaia e migliaia di pipistrelli che mi volavano intorno nel loro habitat, non ha obbiettivamente paragone. In una cittadina ormai immersa nell’oscurità, abbiamo un po’ di difficoltà a rintracciare il mio Blue guest house, ma alla fine lo troviamo. Sistemo tutte le mie cose, per bene, in valigia e poi esco alla ricerca di un ultimo ristorante. Non ho voglia di camminare troppo e, dopo un paio di ristoranti decenti però già pieni, decido di entrare in un locale non molto distante dall’alloggio. Sarà una cena da dimenticare e così mi congedo dalla Cambogia un po’ sottotono. L’indomani si parte presto, alle 5.00. Il tragitto fino alla capitale è lungo ed è previsto del traffico che rallenterà notevolmente la nostra andatura. Comunque raggiungeremo in tempo l’aeroporto. Saluto Sovan sperando di non subire ritardi aerei come all’andata. Per fortuna i voli saranno tutti in perfetto orario e, nonostante il lungo scalo di cinque ore a Guangzhou, in Cina, atterrerò in discreta forma a Parigi, pronto per l’ultimo salto fino a Linate.

 

 

 

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