2016  GIORDANIA

Il regno hashemita

 

Ci sono due Paesi che, a diverso titolo, temono un allargamento delle conquiste militari dell’ISIS e l'effetto destabilizzante dovuto alla presenza di estremisti e terroristi islamici sul proprio territorio: Libano e Giordania. La guerra civile siriana, l’ascesa dell’ISIS e la sua diffusione anche sul territorio iracheno sono tutti elementi che mettono in difficoltà la stabilità, se non addirittura la sopravvivenza, del regime hashemita. Si parla infatti di oltre un milione e mezzo di siriani sparsi sul territorio giordano, a cui vanno aggiunti almeno un milione di rifugiati iracheni e circa 600.000 egiziani. Per un Paese che conta circa 7,5 milioni di abitanti questa massa di profughi costituisce non solo un peso economico, ma anche un pericolo sociale. Perché c’è il ragionevole dubbio che tra tutti questi espatriati qualcuno sia collegato al terrorismo islamico.E' infatti sul piano della sicurezza interna che il regno fronteggia i rischi più grandi. Oggi combattono nelle fila dell’ISIS e del Jabhat al Nusra fra Siria e Iraq oltre 2.000 volontari giordani. Questo fa della Giordania una delle nazioni più rappresentate nelle milizie terroristiche in Medio Oriente. Inoltre, da alcuni sondaggi condotti dall’università di Amman emerge come circa il 10% della popolazione esprima simpatie verso l’estremismo islamico. Alcune manifestazioni si erano  tenute nel giugno 2014 a Ma'an, nel sud del Paese, area storicamente teatro di rivolte e di infiltrazioni salafite. Amman ospita sul proprio territorio circa 8.000 soldati americani, soprattutto reparti di élite ed un'unità aerea a Mafraq, basi addestrative dove la CIA forma i ribelli siriani. La Giordania è praticamente circondata da problemi che potrebbero improvvisamente farla diventare un secondo Yemen. Ma, al momento, tutto sembra sotto controllo e il territorio pattugliato in modo soddisfacente. D’altronde, all’interno di questa piccola nazione, sono concentrate alcune perle di cui l’umanità dovrebbe andare fiera, e sono Petra, il Wadi Rum e Jerash, oltre a stupendi mosaici dell’era romana e bizantina. Prima che esplodano situazioni irreversibile che cancellino dalla faccia della Terra siti patrimonio di tutti noi, come è successo in Afghanistan con i Buddha di Bamiyan e, più di recenti, i templi di Palmira, ho voluto concedermi il privilegio di ammirarli e contemplarli. E’ comunque con una certa preoccupazione che parto da Linate con un volo Lufthansa per Francoforte e da lì per Amman dove atterro alle 19.00 ora locale. Per fortuna nessun problema, sia col bagaglio che con l’auto, una Chevrolet Spark che ritiro al banco della Sixt. Mi dirigo verso nord lungo l’autostrada per Amman fino ad un raccordo dove dovrei incontrare la strada per Madaba, luogo del mio primo overnight in terra giordana. Purtroppo il cartello non lo vedo e, nel frattempo si abbatte una tormenta di neve, sì neve, incredibile ma vero. Grazie alle indicazione di due beduini su una jeep riesco a trovare la strada giusta, ma l’impatto è davvero devastante, fa freddo, un freddo cane. Nel mio Pilgrim’s guest house cerco di riavermi dallo shock iniziale, sperando in un prosieguo più clemente. L’indomani, dopo colazione, cerco di riprendermi in mano il paese, come ho sempre fatto finora in tutti i cinque continenti dove sono stato. Prima tappa, monte Nebo, uno dei luoghi più sacri del paese, capace di parlare al cuore dei fedeli delle tre religioni monoteiste. Da queste vette Mosè, che per 40 anni aveva guidato il popolo ebraico attraverso il deserto poté infine vedere quella Terra Promessa che per volere di Dio gli era interdetta. Alla sua morte fu il suo successore Giosuè a portare gli ebrei fino alla terra di Canaan. Nella tradizione ebraica e cristiana Mosè venne sepolto da qualche parte sul monte Nebo. Qui c’è la chiesa memoriale di Mosè, eretta nel 394 d.C. ma purtroppo i lavori di restauro sono ancora in corso, e così non ho l’opportunità di ammirare uno dei più bei mosaici della zona, quello del battistero, anche se da sotto un impalcatura di protezione posso comunque vederne altri di notevole fattura. Il tempo è sempre freddo e nuvoloso, ma mentre scendo verso il Mar Morto si apre lasciando filtrare salutari raggi di sole. Molte tende beduine con capre che razzolano sui pendii delle montagne presenti. Prossima visita al sito del Battesimo di Gesù. Parcheggiata l’auto attendo che arrivi il pulmino con la guida che ogni ora porta i turisti a visitare la zona. E’ stata una delle più importanti scoperte archeologiche nel Medio Oriente l’identificazione della Betania di Transgiordania, dove Giovanni Battista visse e, probabilmente, battezzò Gesù Cristo. Sono state scoperte almeno 11 chiese bizantine, grotte di monaci ed eremiti. Questo è uno dei punti più bassi della Terra, siamo a 350 metri sotto il livello del mare. Si vedono in lontananza le città di Gerico, Ramallah in Cisgiordania e persino uno scorcio di Gerusalemme. Percorriamo il Wadi Kharrar fino alla chiesa greco ortodossa di Giovanni Battista. L’interno non è un granché, solo un mosaico pavimentale e una iconostasi minimale, ma è il luogo sacro sulla quale è stata edificata che trasmette sensazioni. Adiacente ad essa, ad una decina di metri, tra il cinguettio degli uccelli e il fruscio di canne e tamerici, osservo il lento fluire del Giordano, uno dei fiumi storici del mondo, che però è diventato basso, fangoso, appena un metro e mezzo di profondità e, di fronte, il sito israeliano di Qasr al-Yahud che la tradizione ebraica afferma essere dove i Figli di Israele attraversarono il Giordano quando entrarono a Canaan. Non esiste nessuna controprova, tuttavia si percepisce nell’aria il misticismo del luogo. Persone immergono le mani nell’acqua santa e alcune riempiono persino delle piccole boccette. Sulla strada del ritorno si fa sosta nel luogo più sacro, in assoluto, dove Giovanni Battista effettuava i battesimi e dove, appunto, avvenne anche quello di Gesù, naturalmente si dice. Dopo questa visita, spirituale, vorrei concedermi un materiale momento di immersione nel Mar Morto, ma il tempo peggiora, fa freddo e nemmeno mi va di raggiungere il Dead Sea Panorama, un luogo dal quale si dovrebbe avere un bel lookout sul Mar Morto, dato che la visibilità lo impedirebbe. Decido perciò di tornare a Madaba e dedicare le ore pomeridiane alla visita della città, cominciando con la famosa chiesa della mappa, la chiesa di San Giorgio, che presenta poco prima dell’altare un incredibile mosaico che sembra sia stato realizzato intorno al 560 d.C. Oggi se ne possono ammirare solo alcuni pezzi, ma in origine constava di due milioni di tessere. Riproduceva l’intero levante, dal Libano al delta del Nilo, dal Mediterraneo al deserto. Al centro, l’ombelico del mondo, la mitica Gerusalemme, poi si vede Nablus, Gerico, il fiume Giordano e altro ancora. E’ un mosaico celeberrimo e i turisti vengono apposta fin qui per vederlo, ma non è l’unico della città. Nel vicino parco archeologico sono presenti alcuni dei più bei mosaici giordani come quello nella sala di Ippolito, magnifico e in ottimo stato di conservazione. Mi reco poi alla chiesa di Santo Stefano dove ce n’è un altro, pavimentale, nella sala adibita a museo dove sono anche esposte delle belle fotografie che ritraggono personaggi di Madaba di qualche tempo fa. Riesco a salire sulla torre campanaria dove riesco ad avere un magnifico colpo d’occhio sulla città. Per ultimo mi reco alla chiesa degli Apostoli. E’ ora di chiusura, ma il guardiano mi fa gentilmente ammirare alcuni scorci dell’enorme mosaico della navata centrale. Quindi ceno in quello che è considerato uno dei migliori ristoranti della Giordania, l’Haret Jdoudna. Si serve vino e io ordino un Cabernet Sauvignon del Monte Nebo del 2011 di 13° oltre a un Fatteh chicken (un antipasto a base di pollo, pezzi di pane e cosparsi di yogurt) e Musakhan, un piatto palestinese (pollo al vapore cotto con le cipolle e sumac-bacche rosse). Non mi ritengo assolutamente soddisfatto. Oltre al cibo, che considero un accozzaglia insulsa di ingredienti, specialmente per il servizio. Non si presentano due piatti nello stesso istante! Anche quest’oggi il meteo non è stato favorevole e mi chiedo se dovrò lottarci contro ancora per molto. Il giorno seguente parto verso sud, direzione Dhiban dove poi svolto verso est per dirigermi al sito archeologico di Umm ar-Rasas, un piccolo villaggio agricolo che sotto gli omayyadi però era un luogo molto importante. Dal centro visitatori seguo un percorso fino a quella che era la chiesa di Santo Stefano dove ammiro straordinari mosaici pavimentale riparati sotto un moderno capannone. Nell’abside ve n’è uno con disegni a rombi mentre l’ampia navata centrale ne presenta un secondo enorme, suddiviso a riquadri dedicati alle città dell’epoca, a scene di pesca, conchiglie, meduse. Sempre nei pressi del sito ammiro anche una torre singolare, a pianta quadrata e avvolta nel mistero. E’ priva di scale interne, ma in cima ospita una stanza con finestre su ciascun lato. Sembra essere una torre stilita, abitata da un asceta cristiano. Ritornato a Dhiban proseguo sulla celebre King’s highway che si snoda attraverso paesaggi stupendi, a volte pare essere nel west americano, come quando attraverso la valle del Mujib con una scenografica diga. Più avanti, a Karak, ancora oggi chiusa entro le sue antiche mura, salgo al castello crociato, uno dei meglio conservati del Medio Oriente. In cima a un contrafforte roccioso, il castello offre un’ampia vista sulle sue mura e sulla pianura sottostante. Furono i cavalieri vincitori della prima crociata a costruirlo e la sua caduta, da parte di Saladino, è strettamente legata alla storia di Rinaldo di Chatillon, uno spietato guerriero giunto in Terrasanta nel 1147 durante la seconda crociata. Armato di torcia percorro anche i corridoi interni al castello, immaginando come avrebbe dovuto svolgersi la vita al suo interno durante quei tempi bellicosi. E’ ora di ripartire, mi aspetta un percorso che in alcuni punti non è ben segnalato, dovrò chiedere parecchie informazioni, specie a Tafileh, dove le strade si ingarbugliano. Tutto però fila liscio, fluisce intorno ad un paesaggio accattivante, ed infine ecco la deviazione per il villaggio del mio attuale overnight: Dana, sulla punta orientale della omonima Riserva della biosfera. E’ un luogo pittoresco, sul fianco di un altura da cui si gode uno straordinario paesaggio sul sottostante Wadi Dana. Alcune case di pietra sono state trasformate in alloggio, come il mio Dana Tower hotel. Da qui si può partire per scoprire la wildlife del canyon, ma non è propriamente la stagione giusta, e poi il mio itinerario non me lo consente. Dopo un the sulla terrazza per ammirare il tramonto e la cena a base di pollo e patatine nel locale riscaldato dalla stufa, mi rintano sotto le coperte, fa molto freddo da queste parte la sera. Il giorno seguente parto presto, alle 7.30 dopo aver sostituito una gomma bucata, diretto al castello di Shobak, il primo costruito dai crociati in Terrasanta. Versa in uno stato peggiore di quello di Karak, ma vale la pena farci un salto se si è sulla strada. Le mura e le torri sono di epoca mammalucca, mentre le belle iscrizioni calligrafiche sui muri esterni delle torri sono riconducibili alle ricostruzione del XIII secolo. Dopo aver fatto riparare la gomma ed aver acquistato mezzo pane in un forno sulla strada, riparto verso Petra, che raggiungo intorno alle 11.00. Sistemate le mie cose al Sunset hotel, molto prossimo al centro visitatori, entro nel famoso sito archeologico dopo aver acquistato un biglietto valido per due giorni. Parlare di Petra richiederebbe pagine intere, nascosta nel cuore dei monti Shara, è una città avvolta nel mistero. Grazie ai suoi commerci divenne così importante e prospera da sfidare persino la potenza di Roma. Il periodo in cui i Nabatei, popolazione nomade araba, proveniente dalla penisola araba occidentale, cominciarono a insediarsi a Petra, risale probabilmente al VI secolo a.C. quando gli Edomiti, sotto la pressione dei Nabatei, l'abbandonarono per installarsi nella regione di Hebron. Petra diventò lo snodo delle rotte tra Egitto, Arabia e Siria, tra Oriente e Occidente e tra il 1°sec. a.C. e il 1° sec.d.C. raggiunse l’apice della sua potenza con una popolazione che sfiorava i 30.000 abitanti. Il sito è immenso, varcato il cancello, parte una strada di ghiaia divisa in una corsia per i cavalli e le carrozze e una per i pedoni. Il primo bel monumento che ammiro è la tomba dell’obelisco, con quattro obelischi piramidali; dietro di loro si apre la grotta con le tombe. Più avanti, nei pressi della diga ideata dai Nabatei allo scopo di deviare il corso del Wadi Musa è il Siq (la gola), che comincia proprio qui, uno dei punti più scenografici di tutto il sito. E’ stato il movimento respingente tra due placche tettoniche a spaccare in due la montagna, creando la frattura del Siq. L’ingresso della gola era un tempo incorniciato da un arco in seguito crollato. Mi ci inoltro, e sarà 1.2 km di pura estasi camminare in questa gola echeggiante di cinguettii. In alcuni punti si stringe in varchi di qualche metro, incassati sotto picchi  di 150 metri che non lasciano filtrare rumori e nemmeno la luce del giorno. Tutta la strada è fiancheggiata a sinistra da un canale per l’acqua scavato nella roccia. Ogni tanto compare qualche nicchia votiva. E’ un percorso straordinario, ma quando ci si approssima alla fine, e dalla stretta apertura del canyon compare la sagoma del “Tesoro”, le gambe si piegano. Sto per giungere in uno dei luoghi mitici della Terra, al pari delle Piramidi, di Machu Picchu, del Taj Mahal. E quando sbocco e me lo trovo di fronte, devo sedermi, per contemplarlo in tutta la sua bellezza e originalità. Avevo già ammirato, a Lalibela in Etiopia, chiesa monolitiche scavate nella roccia, ma qui ci si trova di fronte a un monumento che è sempre stato al sicuro dall’azione erosiva del vento e della pioggia, e si è incredibilmente conservato. Scavato in profondità nella parete rocciosa e incassato in un alta cavità ellittica possiede delle finiture notevoli, I capitelli corinzi sono estremamente elaborati e le modanature del timpano sono pregevolissime. Fu costruito nel 1° sec. a.C. forse sotto re Aretas III, amante della Grecia, che fece arrivare per la sua costruzione i migliori architetti del Mediterraneo. La sua facciata di 40 metri x 30 è a dir poco spettacolare, una delle bellezze più cristalline che abbia mai ammirato in giro per il mondo. Il Siq esterno si spalanca e svolto poi verso la Strada delle facciate che ospita una dozzina di frontali scavati uno a fianco all’altro. Molti sono semplici, decorati con motivi senza cornice, forse i più antichi tra quelli scolpiti a Petra. Giungo ad un largo che a destra dà verso la parete est con le tombe dei re, ma io preferisco salire oggi sul lato opposto. Un sentiero a gradini, una salita di 30-40 minuti, mi porta sino a due torreggianti obelischi alti sei metri, ricavati sbalzando il terreno tutt’intorno. Da qui continuo a salire fino all’altura del Sacrificio dove si aprono, da più punti, panorami mozzafiato sui canyon sottostanti e la zona archeologica giù in basso. Lunga 15 metri e larga 6, questa altura era destinata ad accogliere cerimonie religiose ed è orientata in direzione di un altare posto sopra quattro scalini. Forse qui avvenivano anche sacrifici umani, chissà! Ridisceso, torno all’ingresso dato che si sta approssimando l’orario di chiusura; albergo e di sera scelgo il ristorante Qantarah dove, in un ambiente arredato con estremo gusto ordino un gidreh, variante locale della famosa tajine marocchina, con due mezze estremamente buone e saporite: l’hummus (salsa fredda di ceci bolliti con agli, limone e olio) e un mtabbal (purè di melanzane acidificato con yogurt e limone). L’indomani mi presento alle 7 al cancello del sito e, fino al “Tesoro” potrò godere praticamente solo del meraviglioso percorso, accompagnato unicamente dal cinguettio di uccelli sconosciuti. Resto di nuovo incantato di fronte al tempio, un privilegio unico che valorizzo ammirando ogni singola modanatura di questa incredibile costruzione nabatea. Decido di lasciare la visita delle tombe dei re per il pomeriggio, che saranno meglio godibili con la luce diretta del sole e mi dirigo al vicino Teatro, risalente al I sec. D.C. prima dell’annessione di Petra all’impero romano. Poteva ospitare fino a 6500 spettatori e tutta la struttura è scavata nel fianco della montagna. Continuo salendo alla chiesa bizantina, su una collina alla destra della città antica. Riparata sotto un moderno capannone era una costruzione a tre navate costruita nel 5°secolo. Non ne resta un granché, ma i mosaici pavimentali delle due navate laterali sono eccezionali e ben conservati, raffigurano il dono della creazione. Da qui si gode una splendida vista sul centro di Petra, sulla via colonnata, sul Teatro Grande a cui mi ci dedicherò più tardi. Ora voglio salire al monumento più difficoltoso da raggiungere: il Monastero. Una faticosa ascesa di un ora circa mi conduce così ad una maestosa facciata di quasi 50mq. scavata su una montagna. Dopo 800 gradini, la vista mi ripaga ampiamente e resto in contemplazione di fronte ad una tazza di the. Molto simile al Tesoro, la facciata è molto meno elaborata e il nome Monastero, dovuto alla presenza di alcune croci all’interno, è improprio dato che in realtà pare essere stato un tempio dedicato al re nabateo Obodas I. Decido di concedermi anche il piacere di ammirare, da vari lookout le splendide viste sulle montagne circostanti e sul Wadi Araba e poi ridiscendo a valle dando inizio alla visita del centro della città. Comincio con il Qasr al Bint, che pare essere stato un tempio nabateo, quindi al cortile del Tememos(area sacra del Tempio), un enorme area aperta e pavimentata certamente presa d’assalto dai fedeli in occasione di cerimonie religiose. Ecco quindi la Porta del Tememos, dove i quartieri degli affari cedevano il passo ai luoghi di culto. Una enorme scalinata mi conduce poi al Tempio Grande, un edificio eretto alla fine del I° secolo dove sono presenti enormi colonne. E’ giunto il momento di visitare la parete est con le tombe reali. Comincio con la tomba del Palazzo che presenta una delle facciate più ampie di Petra, una struttura a cinque piani, poi la tomba di Sesto Fiorentino, un po’ più defilata sulla sinistra. Governatore della provincia romana d’Arabia, egli decise di farsi seppellire qui invece che a Roma. Aggraziata da un frontone semicircolare è una delle più affascinanti in città. Ritornato sui miei passi, proseguo con la tomba corinzia, una costruzione tozza che ricorda quella del Tesoro. Poi quella della Seta, degna di nota per i suoi splendidi colori, ed infine la tomba dell’Urna con il cortile fiancheggiato da colonne e sorretta da più ordini di arcate. Sulla facciata che si leva alta sul cortile gli intercolumni ospitano tre sepolture e poiché a Petra di solito i loculi si ospitano all’interno, questa anomalia architettonica indica l’importanza dei defunti qui onorati. E’ giunto il momento di far ritorno e, dopo una salutare doccia, mi reco a cenare al Red Cave, sulla strada principale dove gusto un ottimo mensah, il piatto tipico della zona, bocconi di agnello su un letto di riso, pinoli e yogurt di latte di capra. E per dessert, il dolce tipico giordano: la Baklawa, specie di pasta sfoglia farcita con pistacchi, ricoperta da sciroppo di rose e arance. Il ricordo di queste due splendide giornate di sole a Petra mi accompagnerà per molto tempo. Il giorno seguente parto molto presto, alle 6.30, voglio coprire in fretta i 130 km fino ad Aqaba, sul Mar Rosso. Attraverso la piana desertica dominata dal calcare e il basalto, giungo infine a questa stazione balneare all’estremo sud della Giordania. Nonostante venga presa d’assalto dai turisti occidentali, che per lo più soggiornano a sud della città, nella zona hotelera, Aqaba è uno dei centri più conservatori del paese e un luogo di sosta per i pellegrini in viaggio verso La Mecca. C’è sole, la temperatura è piacevole, ma ben diverso è pensare di entrare in acqua, tuttavia ci sono venuto anche per questo. Il modo migliore per godere della stupenda barriera corallina, ancora incontaminata, a poche bracciate dalla riva è quello di entrare in uno degli hotel che mettono a disposizione spogliatoi e lockers. Io sono solo e non posso permettermi di lasciare documenti e soldi nello zaino delle poche spiagge libere, come quella dell’Amman beach a pochi chilometri dalla città e quindi decido di recarmi al Royal diving center. Incredibilmente ho tutta la struttura a mia disposizione, compresa spiaggia e piscina. Dapprincipio ho un po’ freddo e c’è anche un fastidioso vento che diminuisce ulteriormente il piacere di prendere il sole, ma non sarà certo questo che mi impedirà di godere un principesco snorkelling che effettuo intorno alle 11, quando il sole è più caldo. Sceso dal pontile di fronte alla spiaggia e superato lo shock iniziale dell’acqua gelida, mi abituo in fretta alla temperatura e mi abbandono al magnifico ambiente corallino che si apre innanzi a me. E’ uno degli ambienti marini più belli e variegati che abbia mai visto, coralli multicolori dalle forme più svariate e bizzarre, anemoni con i pesci pagliaccio, pesci balestra, pesci ago, un polipo e persino due piccoli barracuda. Soddisfatto per essere riuscito a concedermi anche questa esperienza, ritorno in città segnalandomi al mio Dweik 1 hotel, dopodiché mi dedico alla visita di quel poco che Aqaba può regalare al turista. Percorro tutta la Corniche verso sud osservando, nella lunga public beach, la vita locale, dove le famiglie vengono a godersi il sole e quel che possono della vita balneare, specie i ragazzini, dato che le poche donne che vedo in acqua sono coperte di nero dalla testa ai piedi e stanno a mollo in modo quanto meno anomalo. Giungo fino alla famosa asta della bandiera, una delle più alte del mondo e che dicono si veda persino dalle coste egiziane e israeliane. E’ alta 132 metri e vi sventola non la bandiera giordana, ma uno stendardo  nero, verde e bianco della grande rivolta araba. Di fronte è il forte di Aqaba, ma mi rifiuto di spendere soldi per una struttura così minimale e preferisco girovagare per le vie interne tirando sera quando mi reco al migliore ristorante cittadino, l’Ali baba dove ordino un fisherman basket. Un ultimo sguardo alle lontane luci dei grattacieli di Eilat, sulla vicinissima sponda israeliana e quindi via a letto, dato che domani devo partire molto presto. Alle 8.00 ho infatti appuntamento con Salman, un beduino della Classic tour, contattato sul web e col quale effettuerò un intero day tour a Wadi Rum, l’altra grande attrazione giordana. E’ necessario avvalersi infatti di guide locali e per non perdere tempo avevo già organizzato tutto grazie a Internet. A causa dei problemi siriani anche qui non c’è quasi nessuno e potrò vivere un esperienza unica in un luogo meraviglioso. Con una camionetta Mitsubishi si dà inizio al tour che, dopo una prima salita per ammirare una sorgente con bella vista sul villaggio sottostante ed una seconda alle rovine di un tempio nabateo, entra nel vivo spingendoci nel vero deserto, uno degli ambienti naturali più spettacolari del Medio Oriente, una meta imperdibile per chi visita la Giordania. Il wadi fa parte di una serie di faglie parallele nel deserto sabbioso a sud dei monti Shara e incise in profondità dentro gigantesche montagne di granito, basalto e arenaria. Con una fitta rete di canyon e dirupi, archi di roccia che la natura ha scolpito  a cavallo delle gole, rappresenta una meraviglia tutta da scoprire. Dopo le Lawrence springs, descritte da lui stesso nei suoi “I sette pilastri della saggezza”. Proseguiamo oltre, verso sud, in direzione del Jabal Khazali sostando sul percorso nei pressi di una duna che salgo fino in cima e dalla quale si gode il primo spettacolo della giornata. Di fronte a me, a 360°, si mostra una scenografia meravigliosa fatta di montagne e deserto, dune e sabbia che il sole colora con tonalità rossastre. E sono solo, un atmosfera che respiro a pieni polmoni. Di fronte il grande Jabal Khazali. Si continua fino al Little bridge, il primo degli archi di roccia, che salgo con facilità. Più avanti è il white desert, uno scorcio di deserto più chiaro punteggiato da formazioni rocciose che ammiriamo da una bassa duna. Anche la mia guida gode della pace che ci circonda ed entrambi, in silenzio, osserviamo il lento andamento di due minuscoli scarabei sulla sabbia. Siamo come fagocitati dal silenzio, un momento magico, indimenticabile. Solo, in una maestosa immensità, senza schiamazzi, senza parlottii, persino il vento è cheto a proteggere questo momento quasi mistico. Altra sosta al Jabal Khazali; la parete nord della montagna è spaccata da un colossale canyon cui si accede dalla destra e la parete è percorsa a diverse altezze da pitture thamudene che raffigurano persone e cavalli. I Thamud erano nomadi dalla cultura affine a quella nabatea  che si muovevano per i deserti dall’Arabia meridionale tra l’VIII sec. A.C e il VII d.C.  Quindi ci dirigiamo  verso Umm Fruth, è un susseguirsi di piccole cupole rocciose  e sporgenze attraversate da wadi e valli. Qui si leva un secondo arco di roccia, più impegnativo da scalare ma che riesco comunque a salire. Dopo aver attraversato  per completo un canyon di qualche centinaio di metro ed aver sostato per un pranzo al sacco, proseguiamo ulteriormente verso sud fino ad ammirare il Jabal Burdha, dov’è un impressionante arco di roccia appollaiato sul piano desertico. Per scalarlo ci vuole tempo e corde, perciò preferisco passare. Il paesaggio ora è persino più maestoso quando percorriamo il wadi Umm Ashreen, dove sostiamo a Lawrence house. Dopo aver inalato per l’ennesima volta l’imponente atmosfera desertica da un altura che mi dà la migliore possibilità di osservare la curiosa conformazione della montagna sovrastante, come raschiata, sgretolata da mani gigantesche e colorata poi da un fantasioso artista in diverse tonalità di rosso, mi siedo con la mia guida all’interno di una tenda beduina dove mi viene offerto del the. Non è una situazione turistica, semplice ospitalità. Altre incisioni thamudene nei pressi del Jabal Anfishiyyeh e quindi si completa la giornata in assorta contemplazione di una enorme dura rossa e del paesaggio circostante. In realtà si sarebbe dovuto concludere con il tramonto nel deserto, ma si è fatto improvvisamente nuvoloso, perciò decido di tornare al villaggio. Saluto la mia guida e ritorno ad Aqaba, doccia e termino con una cena al Sherqawy dove ordino un succulento fillet beef circondato da patatine. L’indomani parto presto, alle 6.15 e mi dirigo verso nord, lungo il vasto deserto del Wadi Araba. E’ il percorso più rapido per il Mar Morto. Sarà un tragitto solitario, solo minuscoli villaggi, in uno dei quali faccio colazione. In alcuni punti si costeggia il confine con Israele ed è possibile scorgere le auto che scorrono sull’autostrada che porta ad Eilat. Nei pressi del Mar Morto, a Ghot Safi è il museo del più basso punto della Terra, un edificio semicircolare che conserva al suo interno reperti tessili greco-romani, tombe paleocristiane oltre a un mosaico pavimentale di pregevole fattura. Da qui salgo poi al santuario, un sito archeologico dove un tempo sorgeva una chiesa della quale resta ben poco e perciò riparto. Ogni tanto compaiono tende dell’UNHCR, sono i rifugiati palestinesi. Finalmente ecco il Mar Morto, ma purtroppo il tempo è nuvoloso e c’è anche molto vento, non c’è speranza di concedersi un bagno nelle sue acque. Il futuro di questo mare è incerto, forse fra qualche decina di anni sarà uno sfocato ricordo. Negli anni cinquanta aveva una superficie di un migliaio di km/q, ora sono meno di 700. La causa del fenomeno sta nei continui prelievi realizzati alle fonti di acqua dolce degli immissari per rifornire le grandi strutture hotelere, le numerose dighe sul Giordano, le industrie minerarie e di potassio della zona sud. Continuo a guidare verso nord giungendo all’Amman beach, una spiaggia attrezzata presa d’assalto dai locali, ma oggi non c’è nessuno, le scure nuvole in cielo minacciano pioggia, così proseguo fino alla Dead Sea junction, dopodiché seguo parallelo il corso del Giordano, supero la deviazione per il King Hussein bridge, il ponte che porta a Gerico, in Israele. Attraverso moltissime cittadine palestinesi, mi sento improvvisamente insicuro, visi scuri mi guardano spesso con ostilità, o forse è solo una mia impressione, sta di fatto che mi sento come un estraneo indesiderato. Mi sarebbe piaciuto raggiungere il sito archeologico di Umm Quais, nei pressi del lago di Tiberiade, molto prossimo anche al confine con la turbolenta Siria ma, la strana sensazione che mi pervade, la consapevolezza che il meteo non mi avrebbe permesso una visita adeguata, e il rischio di non riuscire a visitare il castello di Ajloun, mi convince a desistere e deviare verso est salendo le colline fino alla mia destinazione finale giornaliera. E meno male, perché ora piove e anche forte, la strada stretta e la nebbia mi obbligano a prestare particolare attenzione e infine giungo ad Ajloun, al centro di una vasta zona forestale ricca di estese pinete. La sua storia è strettamente legata al castello che domina la città, fatto costruire nel 1184, nel pieno periodo delle crociate da uno stretto parente di Saladino. Si presenta in ottime condizione, è un labirinto  di stanze e cunicoli che portano spesso a terrazze da cui si godrebbe un’ottima vista se non fosse che la visibilità è ridotta e piove a catinelle. Mi reco infine all’hotel Ajloun lì vicino, con la speranza che il giorno seguente il meteo mi concede una pausa per la visita di Jerash. Cena in hotel (e chi ha voglia di uscire con questo tempo) con spiedini d’agnello, humus e insalata. L’indomani parto presto, voglio arrivare a Jerash prima dell’apertura, faccio colazione e appena apre il sito sono il primo a entrarvi. Per la maggior parte del tempo sarò solo a visitare questo luogo che considerò più bello persino dei Fori imperiali di Roma, una fortuna inimmaginabile. tuttavia Gerasa divenne veramente importante solo con l'avvento dei Romani. A seguito della conquista della regione operata da Pompeo nel 64 a.C., Gerasa fu annessa, dalla Repubblica romana, nella provincia di Siria. Dopo che l'imperatore Traiano, nel 106, aveva assorbito il regno nabateo, a Gerasa affluirono molte ricchezze e molti edifici furono abbattuti per essere sostituiti da altri ancora più imponenti. L'opera continuò anche durante il governo di Adriano che, nel 129, visitò la città, ed in suo onore a sud della città venne edificato un Arco di trionfo, il primo grande monumento che si osserva, subito dopo l’ingresso al sito. Quindi, sulla sinistra, ecco l’ippodromo, dove si svolgevano le gare sportive e le corse delle bighe. Subito dopo il centro visitatori è forse la zona più d’impatto, con la straordinaria piazza ovale che consiste in un ampia zona centrale lastricata e fiancheggiata da due colonnati ad andamento curvo, entrambi a forma di ellissi. E’ l’entrata alla città vera e propria. L’ammiro da vari punti d’osservazione: dalla cima delle gradinate del bellissimo Teatro sud, dal vicino Tempio di Zeus. Ogni tanto il sole riesce a farsi strada tra le nuvole illuminando ad arte per foto stupende. Giunge il momento di percorrere il Cardo (la via colonnata), l’arteria principale dell’antica Gerasa, lunga 800 metri. Ora s’ammirano solo le colonne, ma un tempo esse reggevano un architrave continuo, mentre un ampio marciapiede su entrambi i lati consentiva l’accesso alle botteghe. Supero il tetrapilo sud, l’incrocio con il decumano sud, una piccola piazza circolare con quattro piedistalli con nicchie che ospitavano statue, e quindi ecco lo splendido Ninfeo, la fontana pubblica  terminata nel 191 d.C. e dedicata alle ninfe delle acque. Da qui si sale alla Cattedrale, il cui ingresso è riccamente decorato e segnalato da otto grandi colonne. Uno dei punti più interessanti del sito è l’enorme complesso del tempio di Artemide, figlia di Zeus e dea dei boschi. Salgo infine le scalinate del Teatro nord per godere della miglior visione di questa parte del sito e, raggiunta la Porta nord, ritorno all’ingresso. Mi faccio preparare un sandwich che consumo mentre guido verso sud, direzione la capitale: Amman. Nonostante avessi cartina della città e fossi preparato al suo traffico caotico, mai avrei immaginato un inferno di lamiere così allucinante. Si deve mantenere una calma da shaolin per guidare in queste condizioni, conducenti che non rispettano regole elementari della guida, clacson che strombazzano in continuazione, pedoni che attraversano senza guardare… e l’hotel prenotato che non è dove avrebbe dovuto essere. Mi ci vorrà un ora e mezza per trovarlo, dopo aver chiesto a polizia, locali e tassisti. Trovato a fatica un parcheggio, mi registro e ed esco subito dopo per la visita della città. Per fortuna mi trovo in centro, dove sono presenti i monumenti più importanti, come il Teatro romano, fatto costruire dall’imperatore Marco Aurelio nel 170 d.C. Può ospitare circa 6.000 persone e qui vi si tengono talvolta dei concerti. Nei pressi è anche l’Odeon romano, luogo di ritrovo per incontri e convegni politici. Percorro quindi la trafficata e centrale King Talal street fino alla moschea di Husseini, una costruzione recente a strisce bianche e rosa. Riesco ad entrare nel cortile interno dove sono presenti le fontane per le abluzioni, ma è vietato ai non muslim accedere alla sala di preghiera. Ritorno per un centinaio di metri sui miei passi e prendo la King Faisal street, la più vecchia arteria di traffico della moderna Amman, dove visito il locale souq dell’oro, un paio di isolati ricchi di gioiellerie. Il più bel palazzo della zona è il Diwan del duca, un edificio che risale al 1924 utilizzato come ufficio postale principale. Accedo all’interno e, salito le scale, ci sono sette stanze decorate con foto d’epoca di Amman. Malgrado il tempo perso per causa del traffico, mi rendo conto che forse posso permettermi anche il Museo archeologico nazionale, così riparto in quella direzione, raggiungendolo attraverso una salita impervia. Avrò solo mezzora per la visita ma sarà sufficiente. La più impressionante traccia del passato sopravvissuto fino ad oggi è il palazzo omayyade, sulla terrazza più alta della Cittadella che risale alla prima metà dell’VIII secolo. Nei pressi si trova il tempio di Ercole, di epoca romana. Mentre il sole sta tramontando dietro le colline di Amman, risuonano ovunque i richiami alla preghiera diffusi dai numerosi minareti sparsi a 360 gradi intorno alla collina. E’ un momento suggestivo durante il quale ci si sente fortunati, a vivere queste esperienze, in perfetta solitudine, senza schiamazzi e parlottii. Con un taxi raggiungo nuovamente la moschea Hassan, e da lì salgo alla Raimbow street, la strada più nota della capitale, grazie ai suoi caffè e ai suoi locali eleganti. Pare di entrare in un altro mondo rispetto al caos che regna a solo poche centinaia di metri. E’ una zona residenziale con ville bellissime, negozi di antiquariato e sede del British Council. Gente elegante e auto vistose la percorrono da un lato all’altro. E’ una piacevole oasi, per rilassarsi e passeggiare. Dopo una pizza mi concedo una fetta di torta in una lussuosa pasticceria sulla via per poi tornare al mio albergo. Domani risuona l’ultimo giorno di viaggio, finora tutto è andato bene, ma quest’oggi ho in programma il tour dei Castelli del deserto. Avrei preferito evitare di tenerlo per l’ultimo giorno ma non sono riuscito ad organizzarlo prima. Partendo molto presto, prendo la Prince Hasan e riesco ad uscire da questa città tentacolare indenne. Superati Sahab e Al Muwaqqar, la strada taglia il nulla per decine di chilometri. Qui mi trovo nell’est giordano, sulla strada percorsa da numerosi camion diretti ad Azraq e da lì in Arabia Saudita e Iraq. In caso di guai sarebbe difficile avere soccorsi, perciò cerco di prestare massima attenzione ad ogni cosa anche se sono presenti molte postazioni militari giordane. Il primo castello che incontro è il Qasr Kharana, una di quelle costruzioni risalenti agli albori dell’Islam. Ha l’aria di una fortezza a scopo difensivo, munito di torri angolari e feritoie e un solo ingresso. Ad un esame più attento si riconosce però che le torri sono piene e quindi non potevano ospitare soldati. E’ molto più probabile che Kharana, all’incrocio di molte piste nel deserto, ospitasse invece incontri fra i califfi omayyadi e i capi beduini locali. Riparto verso il secondo castello, il Qusayr Amra, molto più caratteristico e patrimonio dell’Unesco. Mi faccio dare la chiave dal custode per entrare ad ammirare sulle sue pareti dei bellissimi affreschi, specie sulla parete ovest.  Riprendo la strada raggiungendo al Azraq, l’unica oasi di tutta la Giordania e posta a 100 km da Amman. Da sempre crocevia del commercio con altri paesi, oggi è sostanzialmente monopolizzata dai camion. Molte tende beduine, greggi di capre e un deserto arido e pietroso. Dopo un pollo e patatine in un ristorantino sulla strada principale, mi reco a visitare quella che era l’attrazione principale della zona: la riserva palustre di Azraq, ora pallida ombra di se stessa. Fino a qualche decennio fa era un area disseminata di paludi, vita acquatica e avicola. Si pensi che nel 1967 qui fecero tappa qualcosa come 600.000 uccelli tra anatre, alzavole, folaghe e germani, ed erano presenti centinaia di migliaia di rane, molluschi e pesci, ma nel 1992 i danni provocati dall’uomo divennero evidenti. L’acqua qui confluiva da tutti i punti cardinali, ma dal 1963 si cominciarono a pompare piccole quantità di acqua ad Irbid, e dopo la guerra con Israele del 1967, che costrinse migliaia di palestinesi ad ingrossare la Giordania e la capitale, Amman ebbe bisogno di ulteriore acqua. Quando poi anche la Siria costruì una diga sul wadi Rajil, sottraendo al luogo quasi un terzo della sua acqua e Amman approvò la captazione in profondità delle falde di Azraq, l’habitat palustre collassò, ed ora è solo possibile immaginare come fosse allora, ammirando le rare folaghe presenti e i killifish (una specie endemica) delle sue acque. Bene, è ora di fare ritorno ad Amman, non voglio sfidare la fortuna ulteriormente. Me la prendo comoda sostando lungo la strada per un the e raggiungendo l’aeroporto molte ore prima del dovuto. Riconsegno l’auto e, nell’attesa del volo, ripercorro con la mente i momenti più significativi di questo bellissimo viaggio, durante il quale ho avuto la chance di godere nel modo ideale di luoghi magnifici, tra i più famosi del mondo.

 

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