2023  USA

Parchi Nazionali

 

E’ stato un viaggio complicato, dal punto di vista organizzativo, della sua realizzazione, richiedendomi un dispendio di energie incredibile, ma la determinazione con il quale è stato affrontato ha meritato l’appoggio della fortuna ( sotto forma di un meteo ideale ) lungo tutto la mia permanenza in territorio americano. Partito da Milano Linate alle 7.25 con un volo della British Airways, giungo a Londra Heathrow due ore dopo. La sveglia notturna e le otto ore di attesa del volo intercontinentale per Phoenix (la capitale dell’Arizona), già avrebbero messo fuori uso la maggior parte dei viaggiatori, ma il mio itinerario prevede anche, dopo il ritiro di una Mitsubishi Mirage al banco Rent a car della Fox, un lungo trasferimento fino all’ingresso del Grand Canyon ( South Rim ). A Phoenix provvedo a fare una buona scorta di bottiglie d’acqua in uno store che già mi immerge nel costume americano. Un nero, alto e grosso, entra nel locale tenendo sulle spalle una enorme radio che assomiglia più ad una cassettiera che ad un mezzo da cui avviene la trasmissione di contenuti sonori, in questo caso a decibel che si saranno uditi chiaramente anche a 100 metri di distanza. O mio Dio, dove sono capitato! Per fortuna le autostrade americane non sono intasate come quelle italiane e i 360 chilometri scorrono abbastanza tollerati, con una sosta intermedia a Flagstaff. Il Grand Canyon (10) è un’immensa gola naturale scavata dal fiume Colorado nell’area nord ovest dell’Arizona. Le misure di questa incredibile formazione naturale sono impressionanti: il canyon raggiunge infatti 16 km di diametro e 1.6 km di profondità, con una lunghezza totale di 445 km. Sebbene si tratti di un’unica formazione naturale, dal punto di vista delle zone visitabili possono essere  individuate 3 aree  ben distinte: il South Rim ( 2.100 m. ) e  margine meridionale del  canyon, dove si trova il Grand Canyon Village, l’area  più attrezzata  e visitata; il North Rim ( 2.400 m. ), meno turistico e il West Rim, il margine occidentale, conosciuto per lo Skywalk, la famosa piattaforma trasparente sospesa sul canyon e gestito dagli indiani Hualapai.

18 settembre – L’ingresso al Grand Canyon sarebbe alle 8.00, ma giungo al Visitor center già alle 7.30. Devo acquistare l’American Beautiful Pass, una tessera che consente di visitare la maggior parte dei parchi americani per 80 $ (valida un anno) ma gli uffici aprono alle 11 oggi, perciò do comunque inizio al mio programma facendomi portare ai primi view points nei pressi del Visitor center con gli shuttle che partono proprio da un piazzale vicino. Accanto ai vari punti di osservazione, e fra parentesi, mi azzarderò a dare le mie personali valutazioni, da 1 a 10, al paesaggio che vi si gode. Il primo sarà lo Yaki point (7), raggiungibile comunque solo con la navetta. Qui la vista del canyon si apre verso est, dandomi già una anticipazione di quello che questo straordinario parco potrà offrirmi. Quindi Mother point (7.5), che offre un'ampia vista del canyon. Guardando giù si possono vedere alcuni piccoli campioni del fiume Colorado, numerosi sentieri che attraversano il paesaggio e molti raven bullies, simili a grandi corvi, che volteggiano sospinti dai venti e anche uno piccolo scrub jay (passeriforme) nei pressi dei cespugli. A piedi raggiungo lo Yavapai point (7.5) con una vista eccellente e senza ostacoli su e giù per la gola. Il fiume è appena visibile verso nord e, di fronte, si trova il Bright Angel Canyon. Con lo shuttle mi faccio riportare al Visitor center, e lungo il tragitto scorgerò degli alci, all’interno della foresta. Con un'altra navetta raggiungo il Village Route transfer (dista 4 km) da dove comincio la visita dei view point sulla Hermits Rest Route, una strada panoramica di 11 km che non è percorribile con veicoli privati (è possibile solo nei mesi invernali). Sono nove le piazzole panoramiche che si incontrano lungo il percorso. La prima è Trailview Overlook (7.5), da dove una breve passeggiata porta ad ammirare i tornanti del Bright Angel Trail. Da questo punto di vista, puoi vedere davvero una grande porzione di canyon. Quindi il Maricopa point (8) che offre oltre 180 gradi del Grand Canyon, senza ostacoli significativi tra qui e le profondità del canyon. Il prossimo è il Powell point (8) dove è il Powell Memorial, che commemora i primi viaggi esplorativi lungo il fiume Colorado (1869) del maggiore John Wesley Powell e degli equipaggi della spedizione. Questo è un ottimo punto di vista con panorami mozzafiato. L’Hopi point (8.5) offre viste panoramiche e meravigliose del canyon e ben cinque viste sul fiume Colorado, in assoluto uno degli overlooks più scenografici di tutto il South Rim. E’ il punto che si spinge più a nord verso il canyon e la vista si apre incontrastata da est verso ovest. Il successivo Mohave Point (8), concede una vista eccellente del fiume Colorado nel profondo del canyon sottostante, mentre il The Abyss (7.5) presenta un dislivello verticale sottostante notevole. Il Monument Creek Vista (7) consente la visione delle Granite Rapid sul fiume Colorado. Infine il Pima Point (8.5), uno dei posti migliori sul bordo per vedere, e talvolta anche ascoltare, il fiume Colorado. Dopo aver raggiunto l’Hermits Rest, alla conclusione di Hermit Road dove è presente uno snack bar e stand di souvenir, ritorno al Visitor center, e con l’auto punto verso il vicino villaggio di Tusayan dove è il piccolo aeroporto del Grand Canyon, al Papillon Grand Canyon Helicopter Tours e dove mi aspetta un esperienza da brividi che resterà scolpita per sempre nella mia memoria, come del resto, e fortunatamente, molti altre l’hanno preceduta, nel corso di quarant’anni di viaggi. Il sorvolo di 40 minuti sul canyon sarà emozionante e adrenalinico, regalandomi vedute impossibili dai vari punti di osservazioni lungo il canyon. Ma non è ancora terminata la visita di questo luogo maestoso. Ripresa l’auto e rientrato all’interno del parco, dopo aver acquistato l’American Beautiful Pass, percorro la Desert View Drive fermandomi negli ultimi view point, il primo dei quali è il Pipe Creek Vista (7), sotto il quale è una foresta di abeti di Douglas. Questo è un esempio di micro-habitat alimentato dall'acqua e da temperature più fresche derivanti dall'ombra proiettata dalle scogliere del canyon. Quindi è la volta di Grandview Point (7.5), un famoso punto di osservazione che offre viste panoramiche del Grand Canyon da est a ovest, comprese diverse anse del fiume Colorado a est. Il successivo Moran Point (7) prende il nome da Thomas Moran, un artista ben noto per i suoi dipinti di paesaggi degli Stati Uniti occidentali. Quindi il Lipan Point (8.5) con delle viste del canyon più ampie ed estese lungo il South Rim, nonché la prospettiva più lunga del fiume Colorado. Le viste verso ovest sembrano estendersi all'infinito e le pareti del canyon presentano un arazzo di neri, grigi, rossi, marroni, in un'ampia varietà di trame ruvide e lisce. Anche il Navajo Point (8.5) offre una splendida vista a ovest e a nord lungo il fiume Colorado. Per ultimo la Desert View Watchtower, con una struttura di 85 gradini, che però al momento risulta chiusa, dalla quale si può ammirare lo stesso spettacolo del Navajo point. Più avanti, esco dal parco ad est, dirigendomi verso la cittadina di Cameron dove cenerò (per modo di dire) ad un Burger King con un King fish e patatine. Durante questo viaggio le esperienze culinarie saranno da dimenticare, pochi sono i ristoranti che incontrerò lungo la strada e anche i supermercati non offrono altro che tramezzini o panini improponibili. Dormo in auto fuori dal locale fino alle 3 per poi riprendere il viaggio fino a Page, distante altri 130 km.

19 settembre - Prendo visione della conformazione della cittadina e dell’ubicazione del mio primo alloggio di stasera, e dopo la classica colazione con cappuccino e muffin, una costante durante la mia permanenza in USA, mi dirigo all’appuntamento con la Ken’s Tours, gestito dagli indiani Navajo, un tour guidato da loro al Lower Antilope canyon (10), senza ombra di dubbio il più fotografato canyon di arenaria del nord dell’Arizona. Si tratta di un slot canyon, stretto ma tendenzialmente facile da attraversare, con forme interne vertiginose create dal vento e dall’acqua. La luce entra solo dalla parte superiore e in certi momenti del giorno conferisce all’arenaria una splendida tonalità cromatica: le ombreggiature e le sfumature brillanti arancioni - viola delle pareti levigate dagli agenti atmosferici lo rendono uno spettacolo unico, fra i più suggestivi dei parchi usa. Prende il nome dalle antilopi che fino a qualche decina di anni fa si aggiravano indisturbate all’interno ed intorno al canyon. E’ una delle meraviglie naturali del West americano, e uno dei posti più fotografati in assoluto di tutti gli Stati Uniti. La principale caratteristica di questo slot canyon è la sua divisione in due diverse sezioni non direttamente collegate, l’Upper e il Lower. I consigli in rete mi hanno convinto a visitare il Lower. Non si può portare lo zaino (per via della strettezza di alcuni punti) e può essere visitato solo tramite guida dato che il pericolo di inondazioni e allagamenti (il 12 agosto 1997, 11 persone morirono all’interno del canyon), richiede massima attenzione. E’ un percorso della durata di 407 metri, con l’accesso al canyon mediante scalette di ferro un po’ ripide. E’ stata una delle escursioni più emozionanti che ricordi e ritornando all’auto mi considererò un uomo davvero fortunato a essermela concessa, ma ora riparto per un altro punto straordinario, non molto distante da qui: l’Horseshoe Bend (10). Bisogna cercare di venire quando il sole è alto in modo da non avere ombra nel ferro di cavallo che genera il Colorado river, sicuramente uno degli scenari più spettacolari dell’Arizona. E’ un meandro a forma di ferro di cavallo del fiume Colorado. Non è inserito nel pass parchi, ma si paga solo il parcheggio da cui parte un sentiero di 1200 metri che porta al view point, a 1300 metri sul livello del mare e fa parte della Navajo Nation, la grande riserva indiana che si estende in Arizona, Utah e New Mexico. Ritornato all’auto, torno a Page, presentandomi al mio Travelodge da cui riparto subito dopo, direzione Glen Canyon dam, la quarta diga più grande degli Stati Uniti, a pochi chilometri da Page. Lungo la strada, si costeggiano un’impressionante serie di strapiombi che si lanciano a picco sul fiume Colorado ed è grazie alla sua costruzione, avvenuta fra il 1956 e il 1966 che si è creato il lake Powell, un bacino artificiale, il secondo più grande del paese. Per costruire la diga dovettero trovare un modo per deviare le acque del Colorado, e così decisero di scavare molti tunnel laterali attraverso la montagna facendovi riversare il fiume che poi ne usciva a valle. Oggi l’85 % delle acque del Colorado è impegnata per l’agricoltura e il rifornimento delle grandi città. Inutile dire che ben poco giunge fino al Messico. Prosieguo la guida verso nord fino a Wahweap Viewpoint (8), da cui mi è possibile osservare un affascinante quadro naturale di acque cristalline, a contrasto con le formazioni rocciose bianche e rosse che le circondano. Sono davvero stanco, dopo due notti a dormire poche ore in auto e a guidare per centinaia di chilometri, senza contare le molte ore di attesa negli aeroporti e le 12 ore di volo complessive. E’ ora di concedermi una pausa, e lo faccio a Lone Rock, una bella spiaggia lacustre dove faccio un bagno nel Lake Powell, in un panorama da sogno, e in solitudine. Grandioso! Ripresa l’auto faccio una puntata a Wahweap Marina, il punto di riferimento turistico e sportivo più interessante e rinomato della zona, sia per le crociere panoramiche che per le più spericolate ed emozionanti discipline acquatiche, quali il waterskiing e il wakeboarding. Notando la presenza della spiaggia locale, decido di concedermi una seconda esperienza balneare per poi terminare la giornata a due altri view point in zona, la Wahweap view point (7.5) e il Navajo point (8). Dopo una puntata da Pizza Hut, mi rintano in motel cercando di recuperare un po’ le forze.

20 settembre – Ripartenza alle 4.30, dato che voglio presentarmi alla Monument valley (8.5), subito alle 8.00. Le regole stradale vengono puntigliosamente rispettate e la guida è facilitata da strade in ottime condizioni, con pochissino traffico veicolare. Unica pecca solo la mancanza di stazioni di servizio lungo il tragitto. Nemmeno nelle autostrade sono presenti, sebbene sia ben segnalato con cartelli la loro presenza subito dopo alcune uscite. Ho trovato alquanto pericolosa invece la mancanza di sufficienti aree di sosta, per consentire agli autisti di smaltire un po’ di stanchezza dopo lunghe guide. La mia Mitsubishi automatica mi consente una guida facilitata, impreziosita da un panorama straordinario fatto di formazioni rocciose che assumono diverse colorazioni e che sembrano spuntare dal terreno generate da un ciclopico costruttore. Dopo 200 chilometri eccomi finalmente alla Riserva Navajo di Monument Valley, che rappresenta oramai l’immaginario Western americano per eccellenza. Non è un caso che questa incredibile meraviglia naturale abbia fatto da cornice per moltissimi film dedicati a cowboy e Far West. E’ uno dei parchi più importanti che si trovano all’interno della Navajo station, l’area gestita dai nativi più grande degli Stati Uniti. Non rientra fra i parchi nazionali americani gestiti dal National Park Service e si devono pagare 8 $ per accedervi. Fu il regista John Ford e i suoi numerosi film western a generare un immenso interesse per questa zona davvero straordinaria, unica. Durante l’era geologica del Permiano l’area dove oggi sorge la Monument Valley era in realtà un fondale marino dove si accumularono nel corso degli anni vari strati di arenaria e altri sedimenti. L’azione delle forze tettoniche ha fatto poi alzare l’altezza della zona sopra il livello del mare e l’altipiano è stato così successivamente esposto all’erosione degli agenti atmosferici che hanno rimosso via via i materiali più friabili lasciando esposti tutti quei butte (edifici naturali formati da roccia e sabbia che hanno la forma di torri dal colore rossastro ) che si possiamo ammirare e che fanno parte del Colorado plateau. Comincio il percorso, su strade sterrate, ammirando il West Mitten butte (7), l’East Mitten butte (7) e il Merrick butte (6), tre sabbiosi monoliti a formare uno dei paesaggi più famosi al mondo, l’autentico simbolo della Monument Valley. Quindi proseguo con l’Elephant butte (6.5), una delle tante gigantesche e bizzarre conformazioni rocciose di questo parco, in questo caso richiamante appunto un elefante. Poi le Three sisters (8), tre sottili pinnacoli piuttosto caratteristici che si distinguono fra i ben più spessi e tozzi monoliti del panorama circostante; il Camel butte (7.5), una grande conformazione rocciosa che richiama alle gobbe del cammello. Poco più avanti il The Thomb (7.5) e dal North window overlook (8) una straordinaria vista sulla parte nord del parco. Quindi il Cly butte (7) e un nuovo fantastico panorama all’Artist Point overlook (8), ancora verso nord, dove l’orizzonte si perde a vista d’occhio. Scendendo all’estremo sud, oltre il quale sono permessi sono tour guidati dai Navajo, ecco il fantastico Totem Pole (8), pinnacoli che che regalano alcune delle visuali più belle della Monument Valley. Per finire, e sempre verso sud, il The Hub (7.5) e il Rain God Mesa (6.5), una grande conformazione rocciosa situata al centro della valle, che colpisce per dimensioni e imponenza. Alle 10 riparto per l’altro parco che ho programmato di visitare, il Canyon de Chelly (8.5), e saranno altri 150 chilometri, fino alla cittadina di Chinle. Meno famoso del Gran Canyon, lontano dalle masse di turisti, più piccolo, ma assolutamente straordinario e totalmente gratuito. Si percorre un percorso in auto e ci si ferma nelle varie aree per osservare il Canyon. E’ un’area naturale protetta di circa 340 chilometri quadrati che si trova nella Contea di Apache. Nel profondo del canyon è un’insolita vegetazione e si scorgono spettacolari insediamenti secolari degli antichi Anasazi (che tra l’altro si trovano anche nel parco Mesa Verde) incastonati direttamente nelle pareti rocciose. Il Canyon de Chelly, formato a sua volta da due canyon (il Canyon del Muerto e il Monument Canyon), si ramifica in una serie di numerosi e più piccoli canyon, suggerendo, nella sua forma intricata, un vero e proprio labirinto di oltre 40 km. Questa meraviglia naturale è custodita piuttosto gelosamente dai Navajo, i quali non permettono escursioni all’interno del canyon se non tramite visita guidata (rigorosamente organizzata da loro). Percorro per primo il North Rim, fermandomi al primo Antelope House Overlook (8.5), con viste panoramiche davvero suggestive. Poi al Mummy Cave Overlook (7.5), dove oltre allo straordinario panorama, osservo, giù in basso, delle rovine anasazi sorprendenti e ben conservate. Per finire il percorso del North Rim, il Massacre Cave (7), dove nel 1895 un centinaio di Navajo furono uccisi da una spedizione spagnola. Ritorno nei pressi del Visitor Center entrando quindi nel South Rim, dove ammirerò buone viste dal primo Tunnel overlook (6) e dallo Tsegi overlook (6) fino al Junction overlook, sopra il punto in cui si diramano i 2 canyon principali, davvero una vista da brividi (7.5). Più giù sarà lo Sliding House Overlook (8), con altre rovine anasazi. Per finire, lo Spider Rock (8), con una stupenda vista di due pinnacoli gemelli alti 24 metri. a soli 60 metri dal bordo del canyon. Bene, anche questa giornata, davvero straordinaria, è terminata. E’ ora che cominci a coprire un po’ di chilometri che mi separano al prossimo parco nazionale che ho in programma per domattina, l’Archies national park (10), nello Utah, distante 330 chilometri. Alle 19.30, stanchissimo, mi fermo nella cittadina di Bluff, e in un locale che mi pare idoneo ordino un piatto da cui mi aspetto molto, un bad breath burger, ma anche questa volta le mie aspettative verranno deluse. Mi servono, infatti, uno di quei tipici panini, alti sette centimetri con dentro due burger, fungi, insalata, salse. Disgustoso, come disgustosa la sprite che mi presentano calda, in un boccale pieno di ghiaccio. Poveri americani! Deluso riprendo a guidare, concedendomi solo qualche ora di riposo in auto, in una rest area.

21 settembre – Alle 3 di notte riparto, arrivando al visitor center dell’Archies alle 7.00, dopo aver visto due cervi che si aggiravano nelle vie di una cittadina lungo il percorso. Il parco si trova nel sud-est dello Utah, a pochi chilometri dalla città di Moab. Ho dovuto prenotare online l’ora e il giorno della mia entrata, data la popolarità del sito. Il parco è attraversato dall’omonima strada panoramica lunga 18 miglia, la Arches Scenic Drive, una strada che taglia il centro del parco da sud a nord, dando l’opportunità di fermarsi in numerosi punti panoramici e belvedere. Le due zone più importanti che attraverserò con la Arches Scenic Drive sono Courthouse Towers (all’inizio) e Devils Garden (alla fine). Dò inizio alle visite da Courthouse Towers viewpoint (8). È l’unica grande zona di Arches che non presenta archi di arenaria, ma questo non significa che sia di scarso interesse, tutt’altro. La caratterizzarla è la particolare forma dei suoi monoliti, che emergono imponenti e slanciati dal terreno, quasi come una vera e propria skyline di una città moderna. Ci sono The Organ (7), Tower of Babel (7), Sheep Rock (7) e Three Gossips (7.5). Proseguo accompagnato a sinistra dalle formazioni rocciose continue del Great Wall, mentre sulla destra si estende le Petrified dunes (una distesa di dune di sabbia pietrificate). Giungo alla deviazione per la The Windows road, dove mi fermo per ammirare il Balanced rock (7.5), un masso alto più di 16 metri che si appoggia su un basamento di oltre 22 metri di altezza in posizione precaria, quasi a voler sfidare le leggi della fisica. Riprendo con il Portole arch (7), dopodiché il Garden of Eden (7.5), un importante sequenza di imponenti formazioni rocciose. Tutto questo non è che un succoso anticipo della vera attrazione della zona. The Windows Road porta, infatti, all’attacco di due sentieri brevi e facili da percorrere: il Double Arch Trailhead e il Windows Trailhead che mi permetteranno di fare una “scorpacciata” di archi rocciosi: il North Window e South Window (8), due archi adiacenti l’uno all’altro, e il Turret Arch (8), arco sovrastato da una torre e infine il famoso Double Arch (8.5), un maestoso arco a doppia volta. Quelli che sto descrivendo sono all’interno di paesaggi ai quali non si può restare insensibili, fanno breccia nell’anima, e il fatto di viverli senza la contaminazione di altre persone genera un sentimento di felicità persino esagerata, ti pare di essere padrone del mondo, di vivere delle esperienze così acute da dare alla luce quasi urla di gioia. Sono sensazioni che sono difficili da tradurre a parole ma che, se si ha la fortuna di viverle, ci si sente dei privilegiati, con il timore di doverne magari pagare un prezzo che la dea bendata ti farà pagare più avanti, in qualche modo. Comunque, per il momento, faccio il pieno di emozioni, cercando di valorizzare al massimo la fortuna di godere di questi luoghi da sogno. E per esprimere gratitudine alla Dea che crea le prospere vicende, cerco di dare il meglio di me, impegnandomi al massimo, senza badare a stanchezza e difficoltà. Sono solo, viaggio spesso di notte, non impegno inutilmente denaro per alberghi e motel che reputo esageratamente costosi e ottimizzo al massimo il potenziale di ogni parco. Sono convinto di meritare la fortuna che mi sta accompagnando, e continuerò così, finché il fisico e la mente me lo consentiranno. E ne do dimostrazione ulteriore nella successiva Delicate Arch road dove, al termine della strada sono presenti due view point che consentono, pur da grande distanza, di scorgere il Delicate Arch, che rappresenta un po’ il simbolo iconico del parco. In poche parole, una visita ad Arches senza vedere Delicate Arch non può dirsi completa Ci sono essenzialmente due modi per vedere il famoso arco d’arenaria, da lontano attraverso il Lower Delicate Arch Viewpoint e Upper Delicate Arch Viewpoint a poca distanza dal parcheggio, oppure imbarcarsi in un vero e proprio trekking di cinque chilometri andata e ritorno, oserei dire abbastanza faticoso, specie nella sua parte finale, lungo una parete di roccia levigata con una pendenza almeno del 50%. Io non ho più da un pezzo la forma che tanti anni fa mi ha permesso di portare a termine trekking tra i più duri al mondo, ma non voglio perdermi questa icona del parco, così mi armo di volontà e comincio, giungendo non senza fatica alla fine della parete sopraccitata. Ma mentre poco prima ero in compagnia di altri escursionisti, ora sono rimasti solo una coppia ed un'altra persona con i quali proseguire verso una direzione che pare obbligata, e infatti, ad un certo punto si giunge ad un sito dal quale si può scorgere la meta, con molte persone, ragazzi e ragazze che fanno caciara di fronte al simbolo del parco. Ma come fare per raggiungerlo? Davanti a noi si spiegano solo due possibilità. A sinistra c’è un percorso in pendenza che però ad un certo punto sembra divenire impossibile da transitare, e perciò non lo prendo in considerazione. Anche la coppia che sta ammirando la zona sembra indecisa sul da farsi e forse, come me, attende che sia l’altro a prendere l’iniziativa. Col mio binocolo scruto la parte destra, che costeggia uno spuntone di arenaria, ma pare avere una pendenza esagerata, anche se le scarpe aderiscono bene alla roccia. D’altronde quella gente sarà per forza passata da qui, fra di loro ci sono giovani, persino ragazzini, che non mi danno idea di essere dei Messner. Decido per quella via e, dopo una prima parte facile, con una ottima aderenza delle mie scarpe, giungo alla parte più difficile, dove il piede comincia ad aderire, ma con una pendenza sempre più esagerata. E alla mia sinistra, se dovessi scivolare, mi troverei sfracellato sulle rocce sottostanti, 100 metri più giù. Ad ogni passo mi pare sempre più incredibile che quei ragazzi fossero passati da qui, ma d’altronde da che altra parte avrebbero potuto transitare? Ad un certo punto, l’ultimo tratto mi sembra un azzardo persino esagerate, con i piedi ormai in posizione pericolosa, e davanti non vedo alcun rientranza o piccola cavità che possa consentirmi una presa solida. E’ un momento tragico, perché tornare indietro vorrebbe dire non poter osservare bene il mio incedere, col rischio concreto di mettere un piede in fallo e scivolare. L’unica alternativa e avanzare di quei pochi passi dopo i quali mi sembra che l’incedere possa divenire più sicuro. Quando lascio l’aderenza del piede destro per l’azzardo di un passo pià avanti, non sono sicuro che non possa scivolare giù e mi aiuto posando entrambe le mani sulla roccia, ben sapendo che se il piede non prendesse aderenza, le mie due mani, senza appiglio sufficiente, non sarebbero in grado di impedire la caduta. Fortunatamente questo non è accaduto, ma quando in seguito sono giunto al sospirato Delicate Arch (7.5), non sono riuscito a goderne la visione appieno. La mia mente era impegnata a immaginare il mio viaggio di ritorno, che reputavo “impossibile”. L’unico modo era di attendere che qualcun altro dei giovani presenti iniziasse il percorso di ritorno, ma sembrava che tutti volessero starsene ancora lì. Alla fine mi sono deciso di chiedere ad uno di loro il percorso migliore per il ritorno e, con mio enorme stupore, mi si indica un punto più in alto, dietro al quale è il sentiero, lo stesso dell’andata, che si deve fare. In quel momento mi è sembrato di tornare alla vita, perché dopo la terribile esperienza in alcuni punti durante il trekking sul Ruwenzori, in Africa, mai avevo provato un terrore simile. Il ritorno l’ho percorso senza alcun problema, felice per lo scampato rischio, ma arrabbiato con me stesso per la superficialità con la quale avevo affrontato quel trial. Tornato all’incrocio con la Arches Scenic Drive, prosieguo ancora verso nord, e gli ultimi view point: il Salt Valley Overlook (6) e il Fiery Fornace view point (6). Più avanti, sosto al parcheggio e mi incammino verso altri due piccolo trail, al Sand Dune Arch, a cui si giunge dopo un breve sentiero sabbioso e, più lontano, al Broken Arch (7), il cui sentiero parte dallo stesso punto del Sand Dune Arch (7.5), ma che mi richiederà di investire più tempo (circa 1.5 km andata e ritorno). La visita di questo straordinario parco nazionale giunge al termine quando giungo all’ultimo Skyline Arch (6.5) e torno poi indietro fino al Visitor Center. Sono state sei ore di visita intense ed emozionanti, e dopo un veloce tramezzino, riparto verso il prossimo parco del mio energico programma, il Canyonland national park (7), fiore all’occhiello della regione di Moab, una sterminata zona desertica dove le rocce sono state plasmate dall’azione instancabile di due fiumi, quei Colorado River e Green River che, nel corso dei secoli, hanno costruito meraviglie modellando la roccia in forme surreali, formando vertiginosi canyon, scavando gole e plasmando archi misteriosi. Canyonlands è il parco nazionale più grande dello Utah, e si estende per 1400 km². Giungo al Visitor Center, da dove ammiro il primo view point, lo Shafer Canyon (6). Dopo una decina di chilometri la strada si divide in due direttrici distinte, nei pressi del Mesa Arch Trail (7), un percorso di circa 800 metri che mi porta ad un bell’arco naturale proprio sul ciglio della mesa. Proseguo con il Buck Canyon Overlook (6) e l’Orange cliff overlook (6) fino al Grand View Overlook (7.5) in fondo alla strada. Tornato indietro, completo la visita del parco con il Green River overlook (7). Sono stanchissimo, dopo una giornata intensissima, di camminate e di sole che si schiantava sulla mia testa in ogni istante. Non vedo l’ora di giungere al Budget Inn motel prenotato a Green River, 100 km da qui. Acquisto una birra e un tramezzino al tonno in uno store lì vicino e mi getto a letto, sperando di recuperare in fretta un po’ di forze, per l’estenuante giornata di domani.

22 settembre – Alle 3.00 riparto, lungo un’ampia highway, gustando durante la guida il solito cappuccino e muffin acquistato alla stazione di servizio nei pressi del motel. Dopo circa 230 km. esco dall’autostrada prendendo una statale verso il famoso Bryce canyon (9.5). Saranno ancora più di 130 chilometri ma le prime luci dell’alba mi regaleranno uno splendido paesaggio, prima montagnoso e poi di pianure infinite, dove bovini pascolano in tranquillità insieme a saltuari cavalli. Lungo la strada mi imbatto in un cartello che indica la capanna dove visse in gioventù il famoso Butch Cassidy. Mi fermo un attimo al sito, proseguendo poi in una pace armoniosa fatta di natura e ancora natura, in completa solitudine, maestosa, persino inquietante, fino a giungere al Visitor Center del Bryce che è visitabile percorrendo la strada principale, lunga quasi 30 chilometri, che percorre il parco da nord a sud. Istituito nel 1928 e così denominato in onore del mormone Ebenezer Bryce, può vantarsi di possedere alcune delle rocce più colorate della Terra, i famosi “hoodoos“, pinnacoli del tutto singolari scolpiti da fenomeni naturali d’erosione. L’acqua ha contribuito a intagliare il paesaggio aspro di questo parco per milioni di anni. Il Bryce, nonostante il nome, in realtà non è un vero e proprio canyon, piuttosto somiglia di più a una serie di anfiteatri a forma di cavallo, il più grande dei quali è il Bryce Amphitheater, sito nel cuore dell’area, un luogo dove si resta davvero incantati dinnanzi al lavoro che è riuscita a creare la natura. Sarà uno dei luoghi più incantevoli mai ammirati nei cinque continenti. Il Bryce Canyon si trova ad un’elevazione non indifferente, più di 2700 metri nel punto più alto del parco, per questo le temperature estive solo in casi particolarmente eccezionali superano i 30° mentre durante l’inverno non è raro sfiorare i -10° soprattutto durante i mesi di dicembre e gennaio. Comincio le visite con il Sunrise point (8.5) che già mi regala la magnifica vista del Bryce Amphitheater, e sovrastando la selva di hoodoos che popola il Fairyland Canyon. Da qui percorro il Queen’s Garden trail (10), un magnifico percorso di circa 3 km andata e ritorno, lungo un sentiero che si snoda fra paesaggi da fiaba e hoodoos straordinari. Si snoda lungo la parte inferiore dell’anfiteatro e passa attraverso molte affascinanti formazioni rocciose e alberi. Tornato al parcheggio mi dirigo al Sunset point (10), da dove il Bryce Amphitheater si manifesta da altre diverse angolazioni. Percorro il sentiero che lo costeggia, restando ammirato da uno spettacolo a dir poco entusiasmante, fino al lontano Inspiration point (10), da dove la sottostante selva di pinnacoli di Silent City consegna alla vista immagini che saranno per sempre scolpite nella memoria. E poi ancora il Bryce point (9.5) che mi emoziona ulteriormente. Si tratta di uno dei punti più alti che si affaccia lungo il bordo dell’anfiteatro e che consente di ammirare moltissimi hoodoos dalle forme più stravaganti. Non posso che ripetere le medesime affermazioni già espresse, sono spettacoli naturali che lasciano abbagliati, dalla bellezza che emanano! Tornato indietro, riprendo l’auto e mi dedico ai view point che si possono ammirare dai semplici parcheggi sulla strada panoramica. Saranno il Paria view (7.5), uno dei pochi punti del parco che offrono la visione del paesaggio del canyon illuminato dal sole che tramonta. Quindi il Swamp canyon (6.5) , il Farview Point (6) mentre lungo il lato destro della strada noto la foresta di conifere, con moltissimi alberi abbattuti da quella che dovrà essere stata una violenta tempesta con vento fortissimo. Prosieguo con il Natural Bridge (7.5), dove godo della vista ravvicinata di un arco naturale di 85 metri di lunghezza per 125 metri di altezza. In seguito l’Agua canyon (7.5), con una delle migliori viste nel parco. In primo piano si vedono gli hoodoos, dietro di loro le Pink Cliffs e sul lontano orizzonte la Navajo Mountain. Ad Agua Canyon si ha la possibilità di ammirare due hoodoos decisamente interessanti, che hanno anche dei nomi curiosi: il più alto dei due, “The Hunter”, sulla sinistra, e “The Rabbit, sulla destra. E avanti con il Ponderosa point (7), il Raimbow point (7.5) che offre interessanti visuali sullo Utah del sud e infine il Black Birch canyon (6). Dopo cinque ore, ho terminato la visita di questo strepitoso Bryce canyon e dopo un veloce spuntino mi dirigo verso il lontano Kolob canyon che purtroppo mi riserverà una cattiva sorpresa. Deve essere accaduto qualcosa da quando avevo controllato le notizie che lo riguardavano, prima di partire, e ora la strada per arrivarci è chiusa. Non mi resta che raggiungere il mio Claridge Inn, un motel sito nella cittadina di St. George, dove, e finalmente, riuscirò a concedermi una cena come si deve. Non è molto onorevole dire di aver scelto il vicino ristorante italiano (di solito ripudio come la peste bubbonica all’estero la cucina del mio paese, a favore di quella locale) ma il cibo statunitense mi ha già dato ampie dimostrazioni negative. Gusterò un ottimo filetto mignon con funghi e carciofi, accompagnandolo con un calice di Cabernet Sauvignon californiano.

23 settembre – Alle 5.30, parto per Las Vegas, dove giungo poco dopo le 8.00. Fortunatamente l’Oyo motel Oasis mi consegna la stanza subito, dandomi la possibilità di lasciare l’auto senza impazzire nei parcheggi che dovrebbero essere quasi tutti a pagamento, sistemare alla bene meglio le mie cose e prepararmi per le visite. Sebbene le autorità cittadine preferiscano definirla capitale mondiale dell’intrattenimento, il resto del mondo, invece, conosce Las Vegas come città del vizio (Sin City) per via dei casinò e più in generale per l’immagine libertina costruita nel tempo. In effetti, dalla legalizzazione del gioco d’azzardo, negli anni ’30 del secolo scorso, la città ha conosciuto una lunghissima stagione di crescita interrottasi soltanto nel 2008 a seguito della crisi finanziaria scoppiata proprio negli Stati Uniti. Anche questa battuta d’arresto, però, è alle spalle, dal momento che in un paio d’anni i livelli occupazionali sono tornati quelli pre-crisi, e soprattutto la città ha continuato a innovare senza abiure rispetto al suo modello di sviluppo, quel mix di divertimento, fortuna e fama che l’ha resa celebre in tutto il mondo. Il mio motel è situato nella parte Nord di Las Vegas Boulevard South, più nota come “Las Vegas Strip”, l’arteria principale di questa città nel deserto del Mojave. Una strada di circa sette chilometri ai lati della quale si trovano quasi tutte le principali attrazioni cittadine: ristoranti, negozi, hotel, club e casinò in una concentrazione tale che non ha pari al mondo. La visione d’insieme è perciò magnetica e allo stesso tempo spaesante, col caldo come unica controindicazione. Mi incammino lungo lo Strip, con l’intenzione di visitare tutti gli hotel più importanti lungo l’arteria, e comincio con lo Stratosphere casinò, hotel & Tower, noto anche come STRAT Las Vegas, un hotel e casinò con la famosa Stratosphere Tower (8.5), da cui si puà godere una splendida vista sulla città, ma che al momento risulta ancora chiusa. Il suo lussuoso casinò con 750 slot machine e 44 tavoli da gioco è enorme (oltre 7500 metri quadrati) ed è decorato con colori blu e grigi che conferiscono al luogo uno stile elegante e tranquillo. Come negli altri casinò che visiterò è possibile avvicinarsi a uno dei tavoli e giocare ai dadi, al poker, al blackjack, al baccarat e alla roulette. Las Vegas presenta anche, e già da subito, il suo risvolto della medaglia. Decine e decine di sbandati, balordi, drogati, senzatetto e zombi, deambulano lungo le sue vie periferiche e non. Uno di loro dorme persino in mezzo al marciapiede che percorro, e al ritorno ne troverò un secondo con una siringa vicino al braccio mentre sembra quasi morto in mezzo al sidewalk. E che dire della fauna che anima questa città incredibile! Sembra che l’apparire sia la sola unità di misura considerata dalla sua popolazione. La maggioranza, infatti, veste in maniera stravagante, provocante, dando di sé un immagine inequivocabile di città del peccato. Prosieguo lungo lo Strip entrando nel Sahara hotel & Casinò (9). Più avanti, lo strepitoso Wynn Las Vegas hotel (10), il nuovo Bellagio. Questo hotel è il prodotto della mente di Steve Wynn, costruttore miliardario a cui si devono altre imponenti strutture di Las Vegas. Per la realizzazione di questo albergo di lusso, il magnate vendette il Bellagio e il Mirage (che aveva a sua volta progettato) ed acquistò lo storico Desert Inn. Lo demolì e vi ricostruì sopra l’ambizioso Wynn, una sorta di Bellagio reinventato per una clientela più alla moda, sostituendo l’eleganza europea con un’atmosfera meno retrò e con un tocco asiatico. Differentemente da molti altri hotel di lusso della Strip, il Wynn non colpisce per la sua struttura esterna, ma per ciò che si trova dentro. Ogni sala è infatti decorata in maniera variopinta, con grandi disegni e mosaici sofisticati, ma anche tappeti, alberi e fiori d’ogni genere che danno colore agli ambienti interni. Una cosa in comune con il Bellagio è l’acqua: se quest’ultimo è celebre per le sue fontane, infatti, il Wynn si distingue per una cascata che, partendo da un monte artificiale, finisce il suo corso in un lago (anch’esso artificiale) di 12.000 metri quadrati, dove emergono statue, colori, immagini e giochi di luce. C’è da restare incantati visitando liberamente questi luoghi enormi, grandi quanto piccoli villaggi, dove si passeggia fra decine e decine di boutique di firme prestigiose, dai famosi gioiellieri Tiffany, Van Cleef &Arpels, Cartier e molti altri, alle più conosciute firme della moda. Credo che siano hotel unici al mondo, che trasudano una ricchezza persino imbarazzante. Poco più avanti resto addirittura sbalordito davanti alla magnificenza del Venetian Hotel (10). Il nome di questo hotel è già di per sé esplicativo. Si tratta infatti di una ricostruzione che rievoca l’antico splendore di Venezia, con la riproduzione in scala di simboli cittadini quali il ponte di Rialto, il ponte dei Sospiri e il Campanile di San Marco. Se il finto ponte di Rialto sormonta una strada anziché il Canal Grande, di fronte alla riproduzione americana del Palazzo Ducale una grande piscina simula i canali veneziani, con tanto di pali d’attracco e gondole. Ovviamente i gondolieri, vestiti in perfetto stile veneziano, portano i turisti da un lato all’altro intonando canzoni italiane. Il Venetian, oltre alla suggestione della ricostruzione d’ambiente, mette anche a disposizione numerosi servizi, fra cui un lussuoso centro commerciale e il celebre museo delle cere di Madame Tussaud. L’hotel fu inaugurato nel 1999 e contiene più di 4000 stanze. Lo percorro estasiato, incantato, ammirato. Proseguo come in un sogno verso il Flamingo (9). L'intero complesso dispone di un casinò di 7200 metri quadrati e di un albergo di 3626 stanze. Lo stile architettonico si basa su reminiscenze dell'Art Decò di Miami e di South Beach.. Quasi di fronte è il Caesars Palace (10), un hotel e casinò di superlusso che si distingue dagli altri hotel della Strip di Las Vegas per la sua architettura contemporanea ispirata a Roma. Nel casinò c'è anche una sala per le scommesse sportive (come vedrò in altri casinò) che è il paradiso dei fan dello sport. Dispone di uno schermo da 143 pollici, con un audio direzionale a quattro zone all'avanguardia, in modo da non perdere nemmeno un minuto della partita. Sembra che per piazzare le scommesse nel modo più comodo e sicuro si possa utilizzare un'applicazione mobile esclusiva del Caesars Palace. Dopo una notte di divertimento al casinò, si può anche godere del resto delle strutture dell'hotel. Una di queste è il teatro, meglio conosciuto come il Colosseo del Caesars Palace, dove si esibiscono cantanti e gruppi musicali di fama internazionale. Mi sento quasi frastornato da tanta ostentata ricchezza, ma non posso fare a meno di proseguire al vicino Bellagio (10), che si dice sia stato progettato per ipnotizzare. Basti pensare che nell’anno della sua apertura, il 1998, si trattava della struttura ricettiva più costosa al mondo. A volerne la realizzazione Stephen Alan Wynn, imprenditore col gusto dell’arte molto attivo nel settore alberghiero e in quello dei casinò. Il nome Bellagio è un tributo all’omonima località sul Lago di Como. In particolare, al Grand Hotel Villa Serbelloni presso il quale Wynn ebbe modo di soggiornare qualche anno prima di costruire questo lussuoso resort nel deserto del Nevada. Com’è noto il Bellagio Las Vegas ha ispirato anche il cinema di Hollywood. Mi riferisco al celebre Ocean’s eleven, film dal cast stellare con Brad Pitt, Julia Roberts, Matt Demon e George Clooney (pure quest’ultimo, come Wynn, frequentatore del Lago di Como). Quanto alle cose da fare e vedere sono davvero molte e tutte molto costose, in linea col target della struttura. Tranne lo spettacolo gratuito delle fontane dal lago artificiale prospiciente l’hotel. Ogni 30 minuti durante il pomeriggio, e ogni 15 la sera, migliaia di fontane danzanti ipnotizzano gli spettatori al ritmo di musica, regalando uno spettacolo sempre diverso. Non a caso, l’idea è stata successivamente ripresa dal Burj Khalifa, iconico edificio in quel di Dubai. Il prossimo sarà il Paris Las Vegas (9) che riesce a evocare perfettamente l’atmosfera della capitale transalpina. L’esperienza più gettonata è l’Eiffel Tower Viewing Deck. La piattaforma panoramica della Tour Eiffel di Las Vegas restituisce un’immagine spettacolare della città. Ovviamente di sera, coi neon e le luci sfavillanti della Strip, la visione è davvero mozzafiato, ma la biglietteria apre alle 16.30 con la salita alle 17.00, perciò, dopo averne visitato lo scintillante interno continuo le mie visite con il Planet Hollywood resort & Casinò (10), all'altezza del suo nome, poiché qui sono state girate scene di film e spettacoli famosi. L'hotel è noto per il suo intrattenimento e dispone di un moderno casinò. Qui è presente una esclusiva sala da poker, e gli spettacoli del Planet Hollywood sono già una tradizione di questo resort. E ancora l’MGM grand Las Vegas (10), un grande hotel e casinò con camere e ristoranti di lusso. Il suo casinò è il più grande di tutta la contea di Clark e occupa circa 16.000 metri quadrati. Si trovano vari giochi come beer-pong, Pop-A-Shot, biliardo e una slot machine a tema cavalli. A breve vi terrà il suo spettacolo il famoso illusionista David Copperfield. Ormai assuefatto da tanto splendore, prosieguo al Tropicana (9), e poi al Mandalay Bay resort & Casinò (10), la cui piscina è insolita perché presenta onde e tonnellate di sabbia vera. Oltre a visitare questa spiaggia artificiale, è possibile piazzare le proprie scommesse e passare una serata di divertimento giocando a una delle oltre 1.200 slot machine del casinò o a piazzare le scommesse sportive e vincere denaro in caso di vittoria del vostro giocatore o della vostra squadra preferita Un esperienza unica è utilizzare gratuitamente i bagni di questi lussuosi hotel. Dal Mandalay prendo la monorail gratuita per una fermata che mi porta all’altrettanto favoloso Excalibur che fa parte fa parte della catena MGM Mirage di proprietà del magnate multimiliardario Kirk Kerkorian. È considerato uno degli hotel più belli del mondo per via del suo tema portante basato su Re Artù, Camelot e il mondo fantasy del medioevo in generale. Uscito dall’Excalibur non posso fare a meno di osservare la High Roller Observation Wheel, la ruota panoramica più alta del mondo (167 m. di altezza) e le Montagne russe (ottovolante) da cui giungono le urla di paura di avventurosi che salgono e scendono a gran velocita su percorsi iperbolici. Ripercorrendo a ritroso lo Strip, giungo al Waldorf Astoria (9) un hotel di 47 piani, celebre per la sua grande e attrezzatissima spa, particolarmente apprezzata dalla clientela. Le camere sono arredate con grande classe e le finestre offrono affascinanti viste sullo Strip. Ultima visita all’Aria (9.5), all’interno del quale c’è un casinò spazioso e varie soluzioni per la vita notturna. Si dice che in questo hotel si trovi il miglior buffet della città. A tutto questo si unisce una struttura dal notevole colpo d’occhio, sorprendenti sculture contemporanee e una piscina magnifica. Senza dubbio si tratta di uno dei migliori hotel in cui poter soggiornare a Las Vegas. E’ giunto il momento di tornare al Paris hotel e salire con l’ascensore alla Eiffel Tower Viewing Deck. La piattaforma panoramica della Tour Eiffel di Las Vegas restituisce un’immagine spettacolare della città. Ovviamente di sera, coi neon e le luci sfavillanti della Strip, la visione è davvero mozzafiato. Io però non me la sento di girare per Las Vegas di sera. Sono stanco e non sono nemmeno un animale notturno, oltre a ciò non è una città che fa per me. Ma anche adesso, dalla piattaforma, godo di uno spettacolo magnifico delle Fontane del Bellagio. Bene, sono cotto a puntino e decido di tornare in motel a sistemare per bene tutte le mie cose, dato che non so se riuscirò a trovare dei motel economici per le prossime due notti, e mi voglio riposare un po’, così prendo la Las Vegas monorail, la monorotaia sopraelevata che attraversa Sin City e che mi porta in cinque fermata alla stazione di Sahara station da dove raggiungo in 10 minuti il mio Oyo Oasis motel.

24 settembre – Partenza comoda, alle 6.30, e dopo circa 70 km giungo alla località di Valley of Fire, sebbene era nel mio programma iniziale andare alla Death Valley, ma purtroppo, dopo 80 anni di precipitazioni quasi nulle, un paio di mesi fa è stata interessata dalle propaggini dell’uragano Hillary che ha devastato la California, e ora la Valle della Morte è chiusa perché la tempesta ha arrecato all’impianto stradale enormi devastazioni. Ci sono sostanzialmente due scenic byway all’interno della Valley of Fire, che permettono di suddividerla in due zone in modo abbastanza preciso: la Valley of Fire Highway (che lo taglia orizzontalmente) e la Mouse’s Tank Road (che lo taglia verticalmente). Inizio la visita dalla Mouse’s Tank Road percorrendo un primo trail, la Mouse’s Tank (7) e circa 1100 metri a/r, conosciuto come Petroglyph Canyon Trail. Lungo l’agile sentiero che si inoltra in questo segreto e affascinante bacino naturale ammirerò, infatti, alcuni esempi di petroglifi, antiche incisioni sulla roccia dei nativi americani. Nonostante i miei sforzi di scovare qualche crotalo, durante i molto off road effettuati durante questo viaggio, non ne riuscirò ad indivuare nemmeno uno, mi sento mortificato, e quando informo di aver visto solo una lucertola più grande del normale durante questo trail mi sento quasi preso in giro. Il successivo trail sarà il Raimbow Vista (7), un po’ più lungo del precedente, e la cui prima parte del sentiero è un vero spettacolo, perché è praticamente uno slalom in salita, stretto tra le rocce rossastre. Interessanti alcune tipiche piante del deserto che ammirerò lungo il percorso. Il tratto di strada che mi separa dal prossimo punto di interesse è sensazionale, fra formazioni rocciose di un rosso accesso e dalle forme variegate. All’Atlas Rock (6.5), in cima a una scala di ferro al lato del parcheggio, sono presenti alcuni petroglifi interessanti riproducenti animali e simboli sconosciuti dei nativi d’America che occupavano questa zona. Il vicino Arch Rock (5.5), un piccolo arco di roccia rossa in cima a un massiccio rosso al bordo della strada, non mi impressiona più di tanto, dopo quelli straordinari dell’Archies national park. Tornato al Visitor Center mi concedo un tramezzino prima di proseguire per le Seven Sister (6), un gruppo imponente di 7 rocce circondate dalla sabbia del deserto, ma parzialmente rovinate da una zona picnic che ne hanno contaminato la scenografia. Per ultimo l’Elephant Rock (7), uno dei simboli del parco, che si trova all’estremità orientale della Highway, proprio al casello della East Entrance. Si tratta di una roccia dalla forma piuttosto insolita, che può ricordare un elefante. Terminata la visita di questa affascinante valle, riparto verso il Lake Mead overlook (7.5), con una bellissima vista su questo lago che è il più grande bacino idrico degli Stati Uniti in termini di capacità idrica. Il lago fornisce l’acqua agli Stati di Arizona, Nevada e California sostentando quasi 20 milioni di persone e vaste aree di terreni agricoli. Non vedo l’ora di raggiungere la zona di Boulder beach per concedermi una parentesi balneare. Dopo un oretta di bagni proseguo verso la Hoover Dam, l’imponente diga situata nel Black Canyon, sul Colorado River, costruita con ingenti sforzi tra il 1931 e il 1935, proprio a cavallo del confine tra Nevada e Arizona. Parcheggiata l’auto salgo fino al ponte da cui si ha la vista migliore sulla diga e il fiume Colorado che ne esce in forma ridotta. Per giungere fin qui si è sottoposti ad un controllo di polizia, essendo questa una zona ad alto rischio di attentati terroristici. Il viaggio sta per finire e devo in qualche modo coprire la distanza che mi separa almeno da Flagstaff (circa 350 km.). La Highway è stata una soluzione comoda e, come tutte le precedenti, gratuita, ma quando giungo a destinazione sono davvero spossato e mi rintano nel parcheggio di una stazione di servizio a concedermi qualche ora di sonno. Ma Flagstaff si trova a 2.106 metri di altitudine e il freddo che patirò di notte non è stato un viatico per il meritato riposo.

25 settembre – Dopo una nottata quasi insonne, me ne riparto alle 5.00 per il famoso Meteor Crater (7.5). Il cratere si presenta oggi come una depressione circolare immensa, prodotta dalla collisione di un pezzo di asteroide che viaggiava a 26 mila miglia all’ora, ben 50.000 anni fa. L’impatto ha prodotto un cratere di quasi 1.600 metri di diametro e 3800 metri di circonferenza, un luogo unico al mondo. Altri 130 chilometri e giungo all’ultima attrazione in programma per la giornata odierna, la Petrified forest (9). Deve il suo nome proprio alla presenza dei tronchi fossili che affondano le loro radici nell’epoca del Triassico Superiore. Gli alberi, infatti, caduti accidentalmente nei fiumi che scorrevano sulla pianura, sono stati poi seppelliti da sedimenti che contenevano ceneri vulcaniche. La silice della cenere è entrata nei tronchi e ha formato cristalli di quarzo che hanno sostituito la materia organica, creando le più disparate e colorate sfumature. Inizio da un piccolo trail al Cristal forest (10), un sentiero pedonale asfaltato di poco meno di un miglio, dove vedrò centinaia di ciocchi e tronchi d’albero pietrificati, un luogo davvero incredibile. Solo in Namibia avevo potuto osservare dei pezzi di tronchi pietrificati, ma nemmeno paragonabili alla varietà e al numero in cui sono presenti qua, straordinario. Prosieguo alla Jasper Forest (8), un punto panoramico dove è possibile vedere altri boschi pietrificati. Quindi l’Agata bridge (5.5), un grosso tronco d’albero pietrificato che unisce due sponde di un canalone. Spettacolare il prossimo Blue Mesa trail (9), lungo la Blue Mesa Scenic Road, una strada secondaria che porta a un parcheggio. Di lì si snoda un impressionante sentiero a piedi lungo circa 1600 metri, che vi avvicinerà a queste bizzarre masse rocciose striate di blu, con sfumature di grigio e viola chiamate badland (calanchi). Qualcosa di davvero affascinante. Giungo poi al Newspaper rock (6.5), un gruppo di 650 petroglifi incisi su alcune rocce circoscritte in una zona del parco. Difficile seguire la linea narrativa delle incisioni. Lì vicino è il sito di Puerco Pueblo (6.5), un sito archeologico che ospita gli insediamenti dei nativi di ben oltre 6 secoli fa nel villaggio di Puerco. A questo punto attraverso un ponte sulla Santa Fè railroad, sotto il quale sta transitando un treno merci trainato da ben tre motrici e lungo forse più di un chilometro. Attraversano questo punto mi trovo nella zona chiamata Painted desert dove, attraverso vari punti di osservazione, si ammira un panorama sterminato, un’arida e rada distesa desertica dai molteplici colori: le rocce formano un arcobaleno che va dal giallo all’azzurro al rosso al grigio, capace di evocare a un occhio attento paesaggi simili nel cuore della Death Valley. Sosterò in vari punti, come il Lacey point (6), il Nizhoni point (6),il Pintado point (6), il Tawa point (7.5), il Tiponi point (7), il Tawa point (7). La straordinaria esperienza alla Petrified forest è terminata e scendo attraverso strade più anonime verso la cittadina di Payson (a circa 160 km) con la speranza di trovare un motel economico, ma mi chiedono sempre più di 100 dollari perciò decido di proseguire verso Phoenix dove sosto ad una stazione di servizio gestita da indiani e dove acquisto un panino da sopravvivenza che getto in pattumiera dopo due morsi. La stanchezza di un viaggio massacrante mi sta uscendo di colpo, e decido di fermarmi qui, e cercare di dormire più ore possibili, dato che fa sensibilmente più caldo rispetto a Flagstaff.

26 settembre – Sono riuscito a concedermi un buon numero di ore di sonno e, dopo la solita colazione, mi dirigo a Phoenix, capitale e città più popolosa dell’Arizona e quinta a livello nazionale. Mi dirigo all’unica visita che ho intenzione di effettuare: il Desert Botanical Garden, un giardino che conta più di 50.000 piante, un terzo delle quali originarie dell’area, e circa 400 rare o a rischio di estinzione. Di particolare rilievo sono le ricche collezioni di agave, cactus, specie della sottospecie Opuntia. Ne ammirerò moltissime, molte originarie del deserto di Sonora. Il viaggio è terminato. Mi dirigo verso downtown per avere una visione generale della città che, francamente, mi appare poco interessante. Avrei voluto visitare anche il Phoenix art museum, ma immaginandomi la qualità delle opere proposte, specie di autori modernisti e pochi francesi del ‘700, ho lasciato perdere preferendo dirigermi verso l’aeroporto, ben prima del necessario. Riconsegnata l’auto, mi accorgo di un messaggio della British Airways che mi avverte del ritardo a cui partirà il mio volo per Londra. Purtroppo questo causerà la perdita della coincidenza del successivo verso Milano Malpensa, ma per fortuna la compagnia mi sposterà ad un volo seguente, che partirà però ben cinque ore più tardi. Mi armo di santa pazienza e riuscirò ad arrivare incolume in Italia, anche se francamente mi pare di aver vissuto per 10 giorni come in un frullatore, ma che viaggio straordinario! Uno dei più belli mai effettuati.

 

 

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